Diritti

Diritto all’oblio: Google deve rimuovere i risultati, se inesatti

La Corte di giustizia Ue ha stabilito che per chiedere la cancellazione dei dati non è più necessario l’avvocato. Chi lo desidera dovrà però dimostrare l’infondatezza della notizia
Credit: cottonbro studio
Fabrizio Papitto
Fabrizio Papitto giornalista
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9 dicembre 2022 Aggiornato alle 18:00

Una nuova sentenza estende il perimetro del diritto all’oblio. L’8 dicembre la Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito che i motori di ricerca devono “dereferenziare” le informazioni relative all’utente se la persona che effettua la richiesta può dimostrare che il materiale è “manifestamente inesatto”.

Non sarà quindi più necessario intraprendere un’azione legale per chiedere la rimozione di un contenuto dai risultati di indicizzazione – non dal web quindi – di Google o altri motori di ricerca nel caso in cui risulti provata l’infondatezza delle informazioni in questione.

Il caso era nato in Germania nel 2015, quando una coppia di manager di un gruppo di investimento aveva chiesto a Google di deindicizzare i risultati della ricerca online relativa ai loro nomi in riferimento ad alcuni articoli – ritenuti inesatti – che criticavano il modello di business della società.

I due manager chiedevano anche di rimuovere anche alcune immagini miniatura (thumbnail) anche se le foto non riproducevano il contesto della pubblicazione ma semplicemente rimandavano a esso.

Google si era rifiutato, sostenendo di non sapere se le informazioni contenute negli articoli fossero esatte o meno. Quindi la questione era passata alla Corte di giustizia federale tedesca, che aveva chiamato in causa la Corte dell’Ue in merito al diritto alla cancellazione, o diritto all’oblio disciplinato dal Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr) dell’Ue.

“I diritti dell’interessato alla tutela della vita privata e alla protezione dei dati personali prevalgono, in via generale, sul legittimo interesse degli internauti eventualmente interessati ad accedere alle informazioni in questione”, scrive la Corte europea con sede in Lussemburgo.

Ma ribadisce che “il diritto alla protezione dei dati personali non è un diritto assoluto ma deve essere considerato in relazione alla sua funzione nella società ed essere bilanciato rispetto ad altri diritti fondamentali, nel rispetto del principio di proporzionalità”.

Il discrimine è dato in particolare dalla specifica sensibilità delle informazioni per la vita privata della persona e dall’interesse del pubblico a disporne. Interesse che può variare, chiarisce la Corte, “secondo il ruolo svolto da quella persona nella vita pubblica”.

Ma la sentenza della Curia europea parla chiaro: il diritto alla libertà di espressione e di informazione non può essere preso in considerazione quando una parte – “fatto non di minore importanza”, sottolinea la Corte – delle informazioni richiamate nel contenuto risulti essere imprecisa.

La responsabilità di dimostrare tale imprecisione, come detto, spetta alla persona, ma affinché l’onere non finisca per ostacolare la richiesta pregiudicandone l’esito, la Curia ha stabilito che chi voglia esercitare il diritto all’oblio è tenuto a fornire solo le prove che possono essere “ragionevolmente richieste”.

Per quanto riguarda le miniature, infine, la Corte ritiene che “si debba tener conto del valore informativo di tali foto indipendentemente dal contesto della loro pubblicazione”, e che “deve essere preso in considerazione qualsiasi elemento testuale che accompagni direttamente la visualizzazione delle foto nei risultati di ricerca e che sia idoneo a far luce sul loro valore informativo”.

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