Ambiente

Per essere ecologici non bisogna rischiare la vita

L’Italia, dove muore circa 1 ciclista ogni 3 giorni, non è un Paese per bici. La morte di Davide Rebellin è l’ennesima - triste e ingiusta - conferma
Credit: ANSA/FABIO FRUSTACI

La notizia della morte del ciclista Davide Rebellin mi ha profondamente intristito. Non solo per il dolore causato dalla sua morte, non solo per il pensiero dell’angoscia che i suoi parenti e amici stanno provando. Mi ha intristito e sconvolto perché rinnova un trauma, che ormai purtroppo è giornaliero: quello causato dall’indifferenza delle istituzioni, ma anche della società stessa, verso le morti su strada. Dei ciclisti, anzitutto, ma anche dei pedoni e di chi usa uno scooter.

Una violenza giornaliera, che non accenna a diminuire, a cui ci si è assuefatti, da cui ci si risveglia solo perché, magari, i genitori di chi non c’è più sono due giornalisti che hanno deciso di non sopportare che questo accada ancora, come i genitori di Francesco Valdiserri.

Allora le istituzioni si muovono, organizzano eventi, promettono interventi. Salvo poi ritornare nell’indifferenza totale. Dalla morte di Francesco, a Roma, la sua città – così come in tutta Italia - ogni giorno hanno continuato a morire persone. Solo ieri, nella città di Francesco, due, tra cui un ragazzo.

Il caso Olanda: dalle macchine alle biciclette per tutti

Quest’estate sono stata quasi un mese in Olanda, girandola un po’ tutta. La storia di questo Paese è strabiliante perché negli anni Settanta, con il progresso, le auto erano arrivate a un numero impressionante, così come il numero di morti. Poi ci furono movimenti di pressione di massa, come quello delle madri “contro la strage dei bambini”, come gli attivisti che disegnavano piste ciclabili con la vernice ovunque. Complice la crisi energetica, il rapporto auto-biciclette si è ribaltato.

Oggi chi va in Olanda in macchina cammina spesso su una corsia centrale unica, e se passa una macchina dal verso opposto deve accostare. Accanto all’unica corsia, a destra come a sinistra, ci sono due enormi piste ciclabili grandi come strade.

Ma sono rimasta impressionata soprattutto da ciò che ho visto intorno alle stazioni ferroviarie di scambio. Decine di migliaia di biciclette, una sorta di mare infinito, messe anche una sopra l’altra su apposite pedane. Perché la bicicletta in Olanda la possono usare anche signore sovrappeso e anziani, il sistema è pensato, appunto, perché si possano raggiungere treni e autobus in bici. Addirittura, accanto alle fermate dell’autobus ci sono le rastrelliere dove legare le bici, così uno scende e prende l’autobus.

Insomma, il punto non è che l’Olanda è piatta, ma che l’Olanda ha creduto in un’altra mobilità e il risultato è che non ci sono quasi 3.000 vittime l’anno – 3.000 famiglie e famiglie di famiglie – distrutte per sempre. Un numero che l’Europa chiede di diminuire invano del 50% entro il 2030.

Non è un Paese per bici (e il problema non sono i singoli)

In Italia muore circa 1 ciclista ogni 3 giorni. Perché l’Italia non è un Paese per bici, come recita il recentissimo dossier di Legambiente che reca appunto questo titolo.

L’Italia, spiega Legambiente, investe nell’auto quasi 100 volte più che nella bici: 98 miliardi per il settore automotive e infrastrutture contro un miliardo di bonus per bici e ciclabili. Le città italiane hanno 2,8 km di ciclabili per 10.000 abitanti, ultime in Europa. Ne servirebbero 16.000 km, 21.000 al 2030, con un investimento di 3,2 miliardi di euro.

«Poche piste ciclabili, spesso non collegate tra loro, e mancanza di una visione che metta insieme pianificazione urbanistica e mobilità sostenibile, rendono difficile, e spesso impossibile, utilizzare la bicicletta come mezzo alternativo all’automobile»: così ha ben sintetizzato la situazione Raffaele Di Marcello, Consigliere di Presidenza della Federazione Italiana Ambiente e Bicicletta.

Se le persone hanno paura, non prendono la bicicletta. Chi la prende, contribuendo a migliorare la mobilità, abbassando le emissioni, cioè facendo un servizio a tutti, lo fa a suo rischio e pericolo. E il problema non sta dunque, come ha scritto con infelice tempismo Beppe Severgnini poche ore prima della morte di Davide Rebellin, che i ciclisti non hanno le luci. Ovviamente, luci e catarifrangenti sono strumenti di protezione, ma in questo modo, di nuovo e come sempre, si rovescia la responsabilità sui singoli, sugli individui e non sul sistema.

L’immaginario sbagliato delle (martellanti) pubblicità di automobili

Dobbiamo dirlo chiaramente. Il problema, ancora una volta, sono i soldi che prevalgono su tutto. E le istituzioni, e i media, che delle aziende che producono automobili hanno timore, nel migliore dei casi (basti guardare gli inserti auto dei giornali). Siamo inondati, letteralmente, di pubblicità asfissianti e martellanti di automobili, sempre rappresentate mentre corrono in scenari naturali mozzafiato fuori dalle città (e dal nostro Paese).

Va detto con onestà che da questo punto di vista con le auto elettriche non è cambiato per nulla, o meglio solo le tecnologie, perché è rimasto identico l’immaginario, e dunque anche i pericoli. Che vengono, appunto, dalla quantità inimmaginabile di auto su strada in Italia – solo a Roma 2 milioni! – e non solo dal fatto che i guidatori sono talvolta ubriachi o drogati.

Il problema principale sta proprio nel numero. E, anche, nella mancanza di volontà di rendere queste auto almeno più sicure. Basterebbe concepire auto con velocità bloccata, oppure sistemi per schermare gli smartphone, che sono una delle principali cause di incidenti mortali. Nulla di tutto questo si fa, per non disturbare il guidatore e il suo piacere di viaggiare (e di acquistare auto, d’altronde un’auto costa almeno 15.000 euro una bici la compri con 100).

Per essere liberi non bisogna rischiare la vita

Ma non si fanno anche cose piccole che potrebbero essere rivoluzionarie: una delle cause degli incidenti tra biciclette e grossi automezzi starebbe nel cosiddetto “angolo cieco”, ovvero una posizione in curva in cui gli autisti non possono in alcun modo vedere pedoni e biciclette. In Francia questi mezzi hanno dunque o dei sensori o anche semplici adesivi che avvisino i ciclisti dietro.

Da noi, nulla di questo. Così si continua a morire. Muoiono nell’indifferenza le persone non famose, muoiono con celebrazioni, ricordi e edifici magari intestati quelle famose. Purtroppo non cambia nulla per loro, perché sono sempre morte.

Di recente il capo dello Stato Mattarella ha ricordato, per la prima volta, le vittime della strada parlando di “sofferenza inaccettabile”. Purtroppo non basta. Come al solito, servirebbe un movimento dal basso, una pressione dei cittadini, delle famiglie, di tutti quelli che vorrebbero che la mobilità sostenibile fosse sicura. Ma forse siamo ancora dipendenti da un immaginario sbagliato, forse ancora non riusciamo a liberarci dalla convinzione che la libertà sia associata a un quintale di ferro che si muove indisturbato.

È ora però di fare questo sforzo. Lo dobbiamo a chi non c’è più e a tutti quelli che ogni giorno rischiano la propria vita. Per essere davvero, loro sì, liberi. E rendendo le nostre città più sicure – è dimostrato che con molte biciclette le auto vanno più lentamente – oltre che molto meno inquinate.

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