Ambiente

Verso il Net Zero: ma le banche puntano sulle fonti fossili

Allarme dalla ong Finance Watch: le 60 più grandi al mondo hanno investito 1,35 trilioni di dollari sui combustibili, che ora rischiano di svalutarsi
La protesta Greenpeace a Ravenna nel 2021 in occasione del Salone dell'energia Omc-Offshore Mediterranean Conference,  "per denunciare il 'patto della finzione ecologica' che vincola il nostro Paese alle fonti fossili"
La protesta Greenpeace a Ravenna nel 2021 in occasione del Salone dell'energia Omc-Offshore Mediterranean Conference, "per denunciare il 'patto della finzione ecologica' che vincola il nostro Paese alle fonti fossili" Credit: ANSA/US/greenpeace
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24 ottobre 2022 Aggiornato alle 13:00

Secondo il rapporto A safer transition for fossil banking della ong paneuropea Finance Watch, le 60 banche più grandi al mondo - di cui 5 italiane (UniCredit, Intesa Sanpaolo, Banco BPM, Banca Monte dei Paschi di Siena e BPER Banca - hanno investimenti per 1,35 trilioni di dollari in asset legati ai combustibili fossili, che rischiano di svalutarsi nella transizione verso il net zero.

La ong ha sottolineato che “I combustibili fossili sono il principale fattore di accelerazione del cambiamento climatico e molti asset legati a questi dovranno essere abbandonati prima che termini la loro vita economica nel percorso di transizione verso un’ economia sostenibile. In altre parole, si svaluteranno, trasformandosi in attivi non recuperabili, i cosiddetti ’stranded asset’. E le banche subiranno delle perdite”.

Per rendere più chiaro il concetto: le grandi banche mondiali hanno investito capitali su asset legati ai combustibili fossili ma, nell’ottica del raggiungimento degli obiettivi posti con l’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, ora si sta viaggiando (si spera) verso l’obiettivo 2050 del net zero, ossia della neutralità carbonica, sui binari di un’economia e un mondo sostenibile in cui non c’è posto per i combustibili fossili, principale fonte di accelerazione del cambiamento climatico.

Ciò significa che questi perderanno utilità e valore e le banche che hanno investito miliardi su di essi subiranno perdite importanti, rischiando di cadere in una grave crisi finanziaria.

«Il mantenimento degli impegni internazionali sul clima, come l’Accordo di Parigi, comporterà una significativa perdita di valore per numerosi asset legati ai combustibili fossili. In assenza di interventi normativi concreti per accompagnare la nuova realtà, i rischi di una transizione disordinata e di dissesti legati al clima rischiano di essere maggiori di quanto il sistema finanziario sia in grado di gestire», ha spiegato Julia Symon, Head of Research & Advocacy di Finance Watch e coautrice del rapporto.

Attualmente, come evidenziato nella ricerca, i rischi associati agli asset legati ai combustibili fossili sono sottovalutati: infatti, la regolamentazione vigente non obbliga le banche ad accantonare fondi sufficienti a coprire potenziali perdite di valore di questi asset. Quindi, in caso di crash bancario, il costo delle operazioni di salvataggio ricadrebbe sui contribuenti, invece di essere assorbito dal mercato.

Per evitare che ciò possa accadere, Finance Watch esorta le autorità normative a adeguare i requisiti patrimoniali delle banche in base alla loro esposizione ai combustibili fossili. Questo sarebbe un importante punto di partenza per affrontare i rischi finanziari legati al clima che pesano sui bilanci delle banche.

Così, secondo la ong, gli asset legati ai combustibili fossili dovrebbero essere trattati come asset “più rischiosi”, con conseguente attribuzione di un fattore di ponderazione del rischio del 150% in linea con gli standard del Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria.

Questo significa che per superare il problema sarebbe necessario in media l’equivalente di 3-5 mesi di utili per ogni istituto, o un aumento di capitale compreso tra 157 e 210,2 miliardi di dollari per le 60 più grandi banche mondiali. Si tratterebbe di un importo mediamente equivalente a un solo trimestre di utili non distribuiti del 2021.

Così facendo, con un adeguamento dei requisiti patrimoniali introdotto in modo graduale, e con la collaborazione delle autorità con gli istituti bancari per stabilire piani realistici, l’aumento di capitale sarebbe finanziato mediante gli utili non distribuiti in un arco di tempo relativamente limitato e non comporterebbe una riduzione sfavorevole della capacità di concessione di credito delle banche.

Eppure, nonostante le possibili soluzioni e l’urgenza di un’azione rapida, ancora oggi, come spiega Benoît Lallemand, Segretario generale di Finance Watch, «In tutto il sistema si evidenzia una tendenza allo scarico di responsabilità, in cui governi, responsabili delle politiche monetarie e fiscali, organi di vigilanza, agenzie di rating, imprese e istituzioni finanziarie accusano le altre parti di inerzia. Proprio come fecero alla vigilia dell’ultima crisi finanziaria, questi stakeholder ora tendono a dare eccessiva fiducia ai calcoli e ai modelli: una scelta tanto più illusoria in rapporto al cambiamento climatico, che rappresenta un rischio molto più grande e complesso rispetto al quale, per definizione, non disponiamo di dati storici su cui poter fare affidamento».

«Nel frattempo - aggiunge - il conto è virtualmente nelle mani dei contribuenti. Oggi siamo alle prese con una grave crisi che colpisce il costo della vita, e molte famiglie faticano ad arrivare a fine mese. Intanto, complice l’aumento dei tassi di interesse, gli utili delle banche crescono. In tale contesto, è incomprensibile che le autorità non intervengano tempestivamente in via cautelativa per proteggere i contribuenti dai rischi finanziari legati al clima».

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