Ambiente

Prevedere il futuro delle foreste: la storia di Giorgio Vacchiano

Eletto da Nature, nel 2019, tra gli 11 migliori scienziati emergenti al mondo, il ricercatore forestale ha ispirato il film “Il seme del futuro”. Proiettato oggi al festival CinemAmbiente di Torino
Giorgio Vacchiano
Giorgio Vacchiano Credit: Dal profilo instagram di vacchiano https://www.instagram.com/giorgio.vacchiano/
Tempo di lettura 8 min lettura
9 giugno 2022 Aggiornato alle 17:15

Leggere le foreste. Interpretarne i segni, osservarne le ferite e registrarne i cambiamenti, per prevedere il futuro che le aspetta e aiutarle a rimanere forti e resilienti anche di fronte alla crisi climatica, così che possano continuare ad aiutare noi, esseri umani, a sopravvivere.

È il lavoro, bellissimo oltreché fondamentale, di Giorgio Vacchiano, ricercatore in pianificazione forestale all’Università di Milano, che nel 2019 è stato incluso da Nature nella lista degli 11 migliori scienziati emergenti al mondo.

Alla sua esperienza è dedicato il documentario “Il seme del futuro” della regista Francesca Frigo, che sarà proiettato questa sera al cinema Massimo di Torino nell’ambito del festival CinemAmbiente di Torino.

Per l’occasione, abbiamo fatto una chiacchierata con il protagonista.

Come nasce “Il seme del futuro”?

Il film parte dal mio libro “La resilienza del bosco”, pubblicato nel 2019 per Mondadori. La regista Francesca Frigo, dopo averlo letto, mi ha contattato proponendomi di raccontare in un documentario la storia delle foreste e del loro rapporto con noi esseri umani. Il progetto, finanziato dalla Film Commission della Valle d’Aosta e da quella di Torino, è nato inizialmente come un documentario in quattro episodi per la Rai regionale. Quando abbiamo deciso di farne un lungometraggio, il pretesto narrativo è diventata la mia personale avventura scientifica, un viaggio di scoperta attraverso le foreste.

Un viaggio che, come racconti nel film, parte dalla tua infanzia.

Esatto, la mia passione per le foreste è nata infatti dalla casa in Valle d’Aosta, affacciata sul bosco, dove trascorrevo le vacanze da bambino. Ma in realtà da piccolo volevo fare il contadino. La passione per le scienze naturali è arrivata solo in seguito, e in particolare la decisione di studiare Scienze forestali la devo a un mio professore, di cui mi colpì soprattutto una frase: «Il forestale – diceva – lavora insieme alla Natura, per il bene di tutti». Avevo sempre pensato che la Natura si potesse solo studiare a distanza, come un oggetto separato da noi. L’idea di poter “lavorare insieme”, di poter creare un legame costruttivo con il mondo naturale fu una rivelazione tale che mi spinse a iscrivermi a Scienze forestali solo per capire cosa volesse dire.

Oggi lavori come ricercatore in gestione e pianificazione forestale. Cosa significa “pianificare” una foresta?

Un piano forestale è un progetto redatto da un professionista, che fotografa la situazione di un certo territorio boscato e programma una serie di azioni per proteggerlo e gestirlo al meglio. Il piano ci dice quanto sono estese le foreste, che specie di piante ci sono e a che velocità crescono, quanta legna è possibile prelevare in modo sostenibile. Ci dà conto anche delle vulnerabilità: quale clima la foresta sperimenterà tra qualche anno, quali rischi sono più probabili, a esempio incendi, frane, siccità. La seconda parte del piano è costituita dalle azioni da fare: una volta si trattava perlopiù di pianificare il taglio del legno, oggi si fanno varie operazioni per rinforzare la foresta e renderla più resiliente alle minacce climatiche.

Perché abbiamo bisogno di aiutare le foreste? Non sono più in grado di auto-regolarsi?

È proprio questo il punto. Eventi che possono sembrarci catastrofici per un bosco, come un incendio o una tempesta, hanno in realtà sempre fatto parte della dinamica degli ecosistemi. Se sono arrivate fino a noi, vuol dire che le foreste hanno sviluppato dei modi per reagire e per non farsi distruggere completamente, a esempio rinascendo grazie ai loro semi dopo il passaggio di un incendio o addirittura ricrescendo dallo stesso ceppo, come fanno alcune specie di latifoglie. Il problema oggi è che questi fenomeni stanno cambiando rapidamente per effetto della crisi climatica. Gli eventi meteorologici estremi aumentano in frequenza, in intensità e in capacità di fare danni. E se fino a ieri una foresta riusciva a reagire a un incendio che arrivava una volta ogni secolo, quando improvvisamente l’incendio comincia a verificarsi ogni 20 o 30 anni, le strategie di adattamento sviluppate nel corso di migliaia di anni non bastano più e non si fa in tempo a trovarne di nuove. Ecco perché le foreste sono in pericolo, così come sono a rischio le cose che fanno per noi.

Cioè i servizi ecosistemici. Quali sono nello specifico?

Si possono dividere in tre gruppi. Ci sono i servizi di produzione, ovvero tutti prodotti materiali della foresta: non solo il legno, ma anche, a esempio, le castagne, i pinoli, i funghi, i tartufi. E ancora, l’acqua potabile, che viene purificata proprio dalle foreste. Poi ci sono i servizi di regolazione, che contribuiscono alle condizioni per la nostra sopravvivenza: protezione dalle frane, assorbimento di una certa quantità di anidride carbonica, mitigazione delle ondate di calore in città, assorbimento delle piogge intense e persino dell’inquinamento da polveri sottili. La terza categoria riguarda aspetti più immateriali, ma essenziali alla nostra specie: sono i servizi culturali. Durante il lockdown ci siamo accorti quanto ci mancasse il contatto con il verde e di come sia indispensabile per il nostro benessere fisico e mentale. E poi pensiamo a quante storie, culture e religioni da sempre ruotano attorno agli alberi e alle foreste. Tutti questi servizi sono spesso dati per scontati e rischiamo di accorgerci della loro importanza solo nel momento in cui verranno a mancare.

Parliamo dell’Italia: qual è la situazione delle nostre foreste? Ce ne prendiamo abbastanza cura?

Ci sono due buone notizie e una cattiva. La prima buona notizia è che le foreste italiane coprono ormai il 40% del Paese e si stanno espandendo, colonizzando gli spazi che noi abbandoniamo, soprattutto nelle aree montane. Questa espansione ha un grande potenziale, perché significa che possono assorbire più carbonio e possono fare da habitat per il ritorno di specie come il lupo. La cattiva notizia è che questa crescita non le mette certo al riparo dagli stress climatici, dalla siccità e dagli incendi, che stanno aumentando: prevediamo che a metà secolo l’area percorsa dal fuoco a livello nazionale sarà dal 25 al 40% superiore rispetto a quella di oggi. E purtroppo la pianificazione, l’unico strumento in grado di tenere in conto tutto questo e programmare le azioni necessarie, è ancora poco diffusa e riguarda solo il 15% delle foreste italiane. C’è però la seconda buona notizia: da pochi mesi abbiamo una Strategia forestale nazionale, la prima italiana e una delle primissime in Europa. La Strategia stabilisce le priorità per i prossimi vent’anni e ha messo la pianificazione al primo posto, tanto che il Mipaaf ha appena stanziato 420 milioni di euro da qui al 2035 per ampliare i piani e migliorare la gestione delle foreste. Insomma, per prenderci cura di questo 40% di territorio che è rimasto un po’ trascurato.

Alla fine del film dici che dobbiamo trovare una “formula” per programmare le foreste. Qual è questa formula?

Un parte della formula è il piano, l’altra è costituita dai modelli matematici che usiamo per provare a prevedere che cosa succederà a una foresta in condizioni mai sperimentate. Fino a solo una ventina di anni fa ci insegnavano a considerare il clima come una costante nella vita delle foreste, il che significava che per capire come sarebbero cresciuti gli alberi bastava semplicemente guardare a come lo avevano fatto nel passato. Ora non è più così, il clima è tutt’altro che costante. Perciò dobbiamo insegnare a un computer come vive e come muore un albero e fare un esperimento che in natura non si può fare: cioè alzare il termostato del clima e vedere come rispondono le foreste. Questi modelli, un po’ come si fa per le previsioni del tempo, iniziano così a essere usati per prevedere il futuro delle foreste e capire quali interventi mettere in atto.

Un’ultima domanda. Nel tuo libro inviti le persone a ispirarsi ai modelli di resilienza delle foreste. Che cosa possiamo imparare da un bosco da applicare alla nostra vita?

Possiamo imparare innanzitutto che il mondo è fatto di relazioni, che siamo comunità. Una foresta è comunità: non importa che muoiano o vengano abbattuti degli alberi, se altri crescono al loro posto e la foresta continua a esistere come ecosistema. Spesso, quando vado in giro nelle scuole o faccio interventi pubblici sul cambiamento climatico, arriva sempre la domanda: “Ma io nel mio piccolo cosa posso fare?” È bello che arrivi questa domanda, ma è quel “nel mio piccolo” che non mi convince. E allora rispondo: “Guarda che non sei piccolo e non sei solo”. Nella lotta al cambiamento climatico dobbiamo imparare a metterci insieme, perché le azioni più forti sono quelle che possiamo fare in modo coordinato: o dal basso, oppure chiedendo tutti insieme ai governi di agire. Ma possiamo farlo solo se percepiamo la comunità e la rete di relazioni che ci lega, proprio come gli alberi in un bosco.

Leggi anche
Climate change
di Giacomo Talignani 2 min lettura