(Heiko Rebsch/dpa )
Ambiente

Finanza climatica: servono 9 trilioni di dollari l’anno per la transizione

Mentre i dati del Climate Policy Initiative ci ricordano che gli investimenti verdi sono ancora insufficienti, il nuovo report dell’Ihleg sottolinea la necessità di un approccio integrato alla finanza per il clima
di Emma Cabascia

Come raccontato in un articolo del Financial Times, la transizione energetica fa passi avanti negli Stati Uniti, anche grazie agli investimenti previsti dall’Inflation Reduction Act, il pacchetto legislativo lanciato dall’amministrazione Biden per promuovere gli investimenti verdi fornendo sovvenzioni, contributi e crediti d’imposta a progetti e aziende amiche dell’ambiente.

La strada verso la decarbonizzazione procede (ma siamo troppo lenti)

È proprio grazie ai finanziamenti previsti dall’Inflation Reduction Act che la compagnia Avangrid, attiva nel settore delle rinnovabili, completerà, entro il primo quadrimestre del 2025, il suo nuovo progetto di energia solare, il più grande mai realizzato dall’azienda.

Il parco fotovoltaico True North (questo è il nome del progetto), sorgerà a Falls County, nel cuore del Texas, e avrà una capacità di 321 megawatt, sufficiente a soddisfare il fabbisogno energetico di oltre 55.000 case americane.

Si tratta sicuramente di un progetto ambizioso dall’elevato impatto sociale e ambientale. E tuttavia True North non rappresenta che una goccia nell’oceano nella strada verso il livello di decarbonizzazione necessario a raggiungere gli obiettivi climatici internazionali.

Secondo le stime dell’Agenzia per le Energie Rinnovabili, ricorda il Times, per contenere le conseguenze disastrose della crisi climatica serve spingere il piede sull’acceleratore. Come? Installando, a livello globale, un’utenza media di 1.000 gigawatt di energia rinnovabile ogni anno da qui al 2030, il che equivale a più di 3000 progetti della stessa scala di True North.

Insomma, il traguardo è ancora lontano. E per accrescere il volume degli investimenti per la transizione energetica è quantomai urgente mettere in discussione i meccanismi che, a oggi, governano la finanza climatica.

La finanza climatica da Parigi a oggi

“Servono più soldi per la finanza climatica”. “Gli investimenti in finanza verde sono insufficienti”. Quante volte vi è capitato di sentire o di leggere frasi come queste?

È una storia già sentita. Quello della climate finance è un argomento che, ormai da anni, occupa uno spazio di rilievo nel dibattito sulle politiche climatiche.

È stato così soprattutto a partire dalla COP21, quando l’Accordo di Parigi designò la finanza sostenibile come uno dei pilastri fondamentali (assieme a mitigazione e adattamento) per un’azione tempestiva e giusta per contrastare il cambiamento climatico.

Infatti, già nel 2015 l’articolo 2.1(c) del Paris Agreement aveva definito essenziale rendere i flussi finanziari “coerenti con un percorso verso basse emissioni di gas serra e uno sviluppo resiliente al clima”, riconoscendo di fatto come limitare il riscaldamento globale entro gli 1.5° dipendesse, in massima parte, dalla mobilitazione degli investimenti necessari, e sottoscrivendo un impegno collettivo da parte degli Stati nel rendere il sistema finanziario compatibile con gli obiettivi climatici internazionali e gli avvertimenti dell’Ipcc.

Da allora, la green finance ha rivestito un ruolo cruciale nell’ambito della governance climatica, diventando uno dei temi più discussi ai tavoli delle negoziazioni.

Lo abbiamo visto anche alla Cop28 di Dubai, quando il Ministro delle Finanze degli Emirati ha lanciato il Global Climate Finance Framework (Gcff), con l’obiettivo di rendere i finanziamenti per il clima “più facilmente disponibili, convenienti e accessibili”, o attraverso l’istituzione di Altérra, un fondo innovativo da 30 miliardi di dollari (destinato a raggiungere 250 miliardi di dollari entro il 2030), presentato come il più grande investimento privato al mondo dedicato alla lotta contro il cambiamento climatico.

Eppure, nonostante gli sforzi crescenti di Stati e banche multilaterali di sviluppo, l’allineamento tanto sperato e agognato dall’Accordo di Parigi non c’è stato.

I dati del Climate policy initiative sulla finanza climatica

Lo scorso novembre, la pubblicazione del nuovo report annuale di Climate Policy Initiative (Cpi) intitolata “Global Landscape of Climate Finance 2023”, ha fornito un aggiornamento sugli investimenti primari correlati al clima in tutto il mondo durante il 2022.

Anzitutto, i dati del Cpi mostrano che i flussi finanziari totali dedicati al clima, al momento, rappresentano appena l’1% del Pil globale. In questo contesto, per riuscire a contenere l’aumento medio della temperatura globale in linea con l’accordo di Parigi, sarà necessario aumentare il finanziamento climatico fino a raggiungere circa 9 trilioni di dollari all’anno entro il 2030, rispetto ai poco meno di 1,3 trilioni di dollari nel 2021-22.

Oltre a un problema di volume totale, sempre secondo Cpi, anche la distribuzione della finanza climatica rimane altamente disomogenea tra i settori, con gli investimenti sulla mitigazione che ricevono 1,150 trilioni di dollari e quelli per l’adattamento che si fermano a 63 miliardi di dollari.

In termini di giustizia climatica e disuguaglianze, il rapporto Global Landscape of Climate Finance sottolinea anche che, nel 2022, meno del 3% dei finanziamenti (30 miliardi di dollari) sia stato indirizzato ai Paesi meno sviluppati (LDCs). Similmente, colpisce anche come i dieci paesi più colpiti dal cambiamento climatico tra il 2000 e il 2019 abbiano ricevuto appena 23 miliardi di dollari, meno dell’2% del finanziamento climatico totale.

Altrettanto preoccupante, una revisione decennale condotta dal Cpi nel 2021 rivela che, in più di 50 economie globali, gli investimenti legati ai combustibili fossili superano la somma dei finanziamenti destinati a politiche di mitigazione e adattamento, una tendenza definita come “persistent misallocation” dall’Ipcc.

Riformare il sistema finanziario per salvare il Pianeta

Sulla base di queste premesse, nel 2022 il Piano di Implementazione di Sharm el-Sheikh ha messo in luce la necessità di attuare una profonda trasformazione del panorama finanziario globale per mobilitare gli investimenti richiesti per un’azione climatica efficace.

Nello stesso anno, Mia Mottley, Primo Ministro delle Barbados, ha lanciato la Bridgetown Initiative, un insieme di richieste per affrontare i bisogni finanziari immediati dei paesi più poveri del mondo (e di conseguenza più vulnerabili al cambiamento climatico) che preveda, allo stesso tempo, di affrontare i problemi sistemici e strutturali della sistema della finanza mondiale. La maggior parte delle proposte afferisce a tre pilastri principali: assistenza alla liquidità per rafforzare la resilienza climatica e fornire prestiti agevolati ai paesi a basso reddito; sostenibilità del debito, esortando i paesi creditori del G20 a accelerare i colloqui sulle mobilità di rimborso del debito stesso; e mobilitazione del capitale privato per accrescere il volume di investimenti per la un’economia a basse emissioni di carbonio anche nei Paesi del Sud.

Proposte simili, incentrate su riduzione del debito, aumento degli investimenti verdi, e potenziamento della governance delle istituzioni finanziarie, sono arrivate da altre iniziative, tra cui la Sustainable Debt Coalition, l’Accra-Marrakesh Agenda, il Patto di Parigi per le Persone e per il Pianeta e la Nairobi Declaration, che hanno presentato agende molto ambiziose per riformare la finanza climatica e rendere il sistema, nel suo complesso, compatibile con gli obiettivi climatici internazionali.

Del bisogno di una trasformazione del sistema finanziario globale parla anche il nuovo report dell’Independent High-Level Expert Group on Climate Finance (Ihleg), un gruppo di esperti è stato incaricato di sviluppare raccomandazioni per incoraggiare e abilitare gli investimenti pubblici e privati necessari per la realizzazione degli obiettivi dell’Accordo di Parigi.

Le priorità secondo il Gruppo di esperti in finanza climatica

Anzitutto, secondo l’Ihleg, la sfida rappresentata degli investimenti che al momento sono insufficienti richiede un approccio molto più mirato, che preveda il coinvolgimento di tutti gli attori chiave (Stati, settore privato, banche multilaterali di sviluppo donatori e filantropia). In questo senso, la capacità e la volontà politica dei leader dei singoli Paesi saranno cruciali per far sì che le piattaforme di dialogo nazionale offrano uno spazio adeguato e occasioni di scambio proficue per gli stakeholders interessati a prendere parte a questo dialogo.

In questo senso, la partecipazione attiva di quanti più attori possibili è centrare per sbloccare gli investimenti su larga scala. Serve un approccio integrato e cooperativo, che superi l’individualismo degli Stati e che punti sulla creazione di opportunità di investimento che arrechino benefici a tutte le parti coinvolte.

Contestualmente, il gruppo di esperti riconosce l’urgenza di affrontare i vincoli del debito immediato e la mancanza di spazio fiscale che stanno impedendo a molti paesi, specialmente quelli più poveri ed esposti al climate change, di investire sulla transizione.

Un altro punto riguarda la mobilitazione delle risorse interne, della cosiddetta finanza domestica, che sarà centrale nel garantire la sostenibilità macroeconomica di tutti i finanziamenti. In questo senso, l’Ihleg ricorda agli Stati che l’eliminazione dei sussidi alle fonti fossili e politiche di tassazione sul carbonio potrebbero generare entrate fondamentali per finanziare la transizione.

Quanto ai finanziamenti alle economie emergenti e in via di sviluppo, i cosiddetti Emerging markets and Developing Countries (EMDCs), per ottemperare agli obiettivi di mitigazione i flussi totali per l’azione climatica dovranno essere aumentati di oltre 15 volte. Per fare ciò, il report ribadisce il ruolo fondamentale delle banche multilaterali di sviluppo (MDBs) sia per sbloccare opportunità di investimento che per mobilitare più finanziamenti attraverso i propri prestiti e la catalizzazione della finanza privata. In questo sensio, l’Ihleg chiede a questi attori di aumentare gli sforzi nella riduzione, gestione e condivisione del rischio, oltreché nella riduzione del costo del capitale, con l’obiettivo finale di triplicare il proprio sostegno alla transizione ecologica entro il 2030.

Verso la Cop29 di Baku: un nuovo obiettivo di finanza climatica?

Nel frattempo, il prossimo novembre potremmo assistere alla formulazione di un nuovo obiettivo quantitativo di finanza climatica.

Alla Cop29, infatti, dovrebbe concludersi il processo di sviluppo del New Collective Quantified Goal, già avviato nel 2022. A Baku, in Azerbaijan, gli Stati dovrebbero raggiungere un nuovo accordo, che secondo le previsioni dovrebbe concretizzarsi nel superamento della soglia minima per il finanziamento climatico ai Paesi in via di sviluppo, che a oggi è di 100 miliardi di dollari l’anno.

Ciò nonostante, analisti e accademici si stanno interrogando se, in un momento tanto cruciale per la transizione energetica, abbia senso focalizzare tutte le energie sulla formulazione dell’ennesimo documento pieno zeppo di promesse che difficilmente saranno mantenute dagli Stati. Alcune associazioni, come CAN Europe, sostengono che concentrarsi esclusivamente sulla fissazione di un nuovo obiettivo quantitativo non sarebbe comunque sufficiente a soddisfare le esigenze dei paesi più vulnerabili al cambiamento climatico.

Al contrario, come evidenziato dalle raccomandazioni dell’Ihleg e dalle iniziative di riforma più radicali come la Bridgetown Initiative, c’è un sentimento crescente secondo cui, sul lungo periodo, esplorare le cause profonde alla base della mancanza di disposizioni finanziarie per il clima, e di conseguenza aprire una discussione seria e onesta sulle possibilità di riformare il sistema finanziario globale, possa portare a soluzioni più efficaci e sostenibili da un punto di vista sociale e ambientale.

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