Economia

Perché la Direttiva sui rider non piace all’Europa?

Dopo due anni di lunghi negoziati, la disposizione Ue a tutela dei rider è stata bloccata dalle astensioni di Germania, Grecia, Estonia, Francia. Così, 30 milioni di lavoratori restano ancora senza tutele
Credit: Robert Anasch  

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11 marzo 2024 Aggiornato alle 10:00

Durante il Comitato dei Rappresentanti Permanenti del Consiglio dell’Unione europea, i governi di Francia, Germania, Grecia ed Estonia – dove ha avuto origine la piattaforma di trasporto Boltsi sono astenuti dal voto sull’ultima versione della direttiva che avrebbe introdotto nuove tutele ai lavoratori della gig economy, tra cui i rider, negoziata in trilogo con la Commissione europea e il Parlamento l’8 febbraio.

Questa legge, ispirata alla legislazione spagnola e proposta dalla Commissione europea nel 2021, ha cercato di portare garanzie giuridiche a circa 30 milioni di lavoratori di piattaforme in tutta l’Unione.

Tuttavia, nonostante la necessità di una regolamentazione e dopo anni di negoziati, la direttiva è stata lasciata in uno stato di stallo, evidenziando la complessa interazione delle forze politiche, economiche e sociali nell’Unione europea.

Nel 2021, la proposta originale era ben più articolata. Riguardava tutti i lavoratori su piattaforme digitali, con l’obiettivo di garantire ampie tutele a quanti svolgessero il lavoro di dipendenti pur avendo contratti da freelance e viceversa; e prevedeva anche di comunicare alle autorità degli Stati Membri maggiori informazioni sulle persone che lavorano tramite loro e a quali condizioni.

Inoltre, imponeva maggiore trasparenza degli algoritmi di gestione dei lavoratori, cioè di quei sistemi di decisione automatica che per esempio assegnano le consegne a determinati rider piuttosto che ad altri, offrendo a questi la possibilità di contestare le decisioni prese.

Successivamente, a dicembre 2023 era stato raggiunto l’accordo all’interno del Consiglio Ue, sebbene sia stato respinto pochi giorni dopo in quanto ritenuto troppo distante dal testo inizialmente approvato. E così, la presidenza – a guida belga – del Consiglio Ue ha lavorato su un nuovo testo a gennaio.

Il compromesso trovato ridimensionava notevolmente il contenuto del testo: l’elemento più controverso uscito dal primo trilogo erano infatti i 5 indicatori scelti, di cui almeno due obbligatori, perché potesse scattare la presunzione di rapporto di lavoro subordinato.

Questo vincolo era stato eliminato: pur mantenendo la presunzione legale di occupazione – cioè il meccanismo mediante il quale si presume che un lavoratore sia dipendente, mentre il datore di lavoro deve provare il contrario – questo sarebbe dovuto scattare alla presenza di fatti indicanti controllo e direzione, secondo le normative nazionali e i contratti collettivi vigenti. Niente criteri armonizzati tra i Paesi membri dunque, ma l’obbligo per i governi europei di stabilire una presunzione legale relativa dell’occupazione a livello nazionale.

La direttiva avrebbe fatto emergere una buona parte dei lavoratori su piattaforma come dipendenti, consentendo loro di accedere a diritti finora negati quali il salario orario, le ferie e la maternità, imponendo a ogni Stato membro di prevedere le condizioni per una presunzione di subordinazione, non qualificando più il rider (o ogni altro lavoratore su piattaforma) come autonomo o freelance.

Tra tutti, la più discussa è stata la posizione francese. Il nodo cruciale che non è riuscito a trovare il favore di Parigi (da sempre critico rispetto alla normativa in questione) è proprio la presunzione legale di occupazione, in quanto il governo ha dichiarato di non essere in grado di sostenere il testo, perché “vago e ambiguo”, e potenzialmente in grado di generare controversie in futuro.

Questa posizione, secondo il Paese stesso, equivarrebbe tecnicamente a un’astensione.

Piuttosto, altri Stati sottolineano il fatto che il rifiuto della norma da parte della Francia è diventato abbastanza chiaro.

In sostanza, i criteri per l’attivazione della presunzione sono stati ritenuti troppo stringenti, nonostante fossero scaturiti da una lunga negoziazione tra i co-legislatori, i quali erano partiti da posizioni molto diverse.

Secondo il governo parigino, in particolare, si sarebbe dovuto adottare un approccio più flessibile e attento alle esigenze del mercato, nonché alle specificità dei sistemi giuridici nazionali.

Non solo i criteri da soddisfare per attivare la presunzione legale sarebbero troppo pochi, ma sarebbero anche talmente generali che finirebbero per essere applicati a tutte le piattaforme, indipendentemente dal loro settore di attività, il che andrebbe a danneggiare anche i “veri” lavoratori autonomi.

Ad oggi, nessun altro Paese europeo ha introdotto normative a tutela dei lavoratori delle piattaforme digitali oltre la Spagna (da cui aveva peraltro preso ispirazione l’Ue per la sua proposta di legge).

La “ley rider” comporta, tra l’altro, l’obbligo per tutte le aziende di rendere i propri dipendenti consapevoli della formula matematica degli algoritmi che utilizzano per coordinare i rapporti di lavoro. Il decreto ha già portato dure sanzioni nei confronti di Glovo, multato per le numerose inadempienze commesse rispetto alla legge spagnola.

Il Ministero del Lavoro ha infatti sanzionato a settembre 2022 la società parte del gruppo tedesco Delivery Hero, costringendola a pagare 79 milioni di euro perché si sarebbe rifiutata di offrire contratti a circa 10.600 rider, ostacolando inoltre le indagini dell’Ispettorato del Lavoro; pochi mesi dopo, a inizio 2023 è seguita una seconda multa, da 57 milioni di euro per la stessa motivazione.

Il rigetto della proposta europea, per ora, non garantisce le tutele necessarie a quasi 30 milioni di lavoratori del comparto. E le elezioni europee imminenti rischiano di allungare – se non annullare – qualunque iniziativa volta ad aiutare i riders e i gig workers.

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