Economia

Cina: il calo demografico continua per il secondo anno consecutivo

Aumentano gli anziani e calano le nascite e gli adulti in età lavorativa. È il risultato di una crisi demografica che rischia di compromettere anche il sistema pensionistico e la posizione economica del Dragone
Credit: Javier Quiroga  

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24 gennaio 2024 Aggiornato alle 18:00

La Cina è alle prese con un serio problema demografico.

Secondo i dati del governo di Pechino, lo scorso anno la popolazione del Paese è diminuita per il secondo anno consecutivo, raggiungendo 1,41 miliardi di persone.

Questo calo – 2 milioni di persone in meno – che è stato più del doppio rispetto all’anno precedente, è il risultato sia del numero più basso di bambini nati dalla fondazione della Repubblica popolare cinese nel 1949, sia del tasso di mortalità più alto dal 1974.

Dopo decenni in cui il tasso di natalità è crollato, il Paese ha da poco iniziato un irreversibile declino demografico che si ripercuoterà su tutta la Cina e su tutto il mondo per i decenni a venire.

Nell’Anhui, una regione della Cina Occidentale, a metà degli anni ‘80 nascevano 131 maschi ogni cento femmine; ciò riflette un tradizionale pregiudizio per i maschi esacerbato dalla politica del figlio unico di Pechino, ormai abbandonata.

Oggi, la Cina ha un surplus di circa 30 milioni di uomini, più della metà in età da matrimonio.

Come mai ci sono così tanti uomini?

Il tasso di mascolinità – cioè il rapporto tra numero di maschi rispetto alle femmine – in condizioni normali è di circa 105 maschi su 100 femmine all’età 0. Tuttavia, in nazioni quali la Repubblica di Corea, il Vietnam, l’India – e la stessa Cina – si sono osservati profondi sbilanciamenti tra i sessi alla nascita, ben oltre il livello fisiologico di 105 maschi su femmine, e il ruolo primario dell’aborto selettivo sulla base del sesso in questa distorsione è stato ampiamente documentato da studi di demografia.

Tra le cause del “genericidio”, come testimonia uno studio condotto da Christophe Guilmoto intitolato The Sex Ratio Transition in Asia, figurano la selezione per necessità – per soddisfare sia limitazioni della fecondità che obiettivi di composizione di genere del nucleo familiare: meno figli, ma almeno un figlio (erede) maschio – e quella vantaggiosa, che si radica in una cultura che favorisce il figlio maschio e presenta forti disuguaglianze di genere.

La contrazione e l’invecchiamento della popolazione preoccupano Pechino perché sta prosciugando la Cina dei soggetti in età lavorativa di cui ha bisogno per alimentare l’economia.

La crisi demografica, arrivata prima delle aspettative, sta già mettendo a dura prova i sistemi sanitari e pensionistici cinesi, deboli e sottofinanziati. E la politica del figlio unico – nata per porre fine a un altro problema, quello della sovrappopolazione – è accusata di stare peggiorando la situazione.

Tale strategia, oltre al surplus di uomini, ha favorito generazioni di giovani ragazze, figlie uniche, a cui sono state date opportunità di istruzione e di lavoro, che sono diventate donne emancipate e che ora vedono gli sforzi di Pechino come un modo per spingerle a tornare a casa, e ai quali si stanno opponendo con forza.

Il presidente cinese Xi Jinping parla infatti da tempo di una necessità di ritornare a dei ruoli più tradizionali per le donne; egli ha recentemente esortato i funzionari governativi a promuovere una “cultura del matrimonio e della maternità” e a influenzare ciò che i giovani pensano riguardo “all’amore e al matrimonio, alla fertilità e alla famiglia”.

Tuttavia, potrebbe non essere l’unica politica decisiva in questa dinamica. Il declino della fertilità, come osserva uno studio condotto da Pauline Rossi e Yun Xiao, è iniziato negli anni ’70, in corrispondenza dell’avvio delle politiche di pianificazione familiare in Cina con la campagna Later, less and further (Llf), che incoraggiava a matrimoni in età più avanzata, ad aspettare più a lungo tra un figlio e un altro, e ad averne di meno.

Tale campagna ha colpito prevalentemente la maggioranza etnica della Cina (gli Han).

Inoltre, i gruppi minoritari a contatto con tale etnia hanno registrato anch’essi un calo della fertilità, che secondo gli studiosi sarebbe una prova dell’ “effetto spillover”; maggiore è la presenza degli Han nei distretti, più intenso è stato l’effetto.

Dal 1969 alla fine degli anni ’70, il tasso di fertilità totale cinese era già crollato da 6,2 a 2,7 figli per donna.

E la popolazione non riesce più a crescere. Anche se la politica del figlio unico è terminata nel 2016 e la Cina è passata a una politica dei tre figli nel 2021, i tassi di natalità non sono rimbalzati.

Il tasso di fertilità è sceso a 1,2 nello stesso anno, toccando un minimo storico ben lontano dal 2,1 figli per donna utile alla riproduzione stabile della popolazione. E nonostante il governo abbia disposto incentivi quali alloggi a prezzi vantaggiosi, sussidi e benefici fiscali, il calo dei matrimoni e delle nascite è stato tale che la popolazione è calata per il secondo anno consecutivo nel 2023.

La popolazione lamenta infatti gli alti costi della vita in Cina – in particolare nelle città più grandi – così come lo scarso sostegno per le donne nel mondo del lavoro, come ragioni per non avere figli; a quest’ultimo punto, contribuiscono anche i tradizionali ruoli di genere e le aspettative familiari.

L’ultima volta che la popolazione cinese è diminuita è stato durante la carestia del Grande Balzo in avanti, la radicale campagna di industrializzazione di Mao Zedong dei primi anni ’60 che portò circa 30 milioni di persone a morire di fame.

Questa volta, il calo non è stato innescato da carestie, guerre o catastrofi, ma da rapidi cambiamenti sociali ed economici, dall’aumento dei costi per sposarsi e crescere figli, e dalla restrittiva politica del figlio unico.

Il pericolo legato all’invecchiamento demografico è di non riuscire più a sostenere il sistema pensionistico cinese; l’Accademia statale cinese delle scienze ha infatti previsto che il sistema pensionistico nella sua forma attuale finirà i fondi entro il 2035.

Per allora, il numero di persone in Cina sopra i 60 anni – l’età pensionabile nazionale – sarà aumentato da circa 280 milioni a 400 milioni. E a questo si aggiunge un calo futuro dei lavoratori e delle lavoratrici; secondo le stime, il Dragone perderà quasi 150 milioni di lavoratori entro il 2040.

Inoltre, la Cina sta già affrontando una carenza di manodopera nel settore manifatturiero, perché i lavoratori più giovani evitano il lavoro in fabbrica. Tale calo dell’offerta di forza lavoro ha come effetto l’aumento dei salari; gli stipendi medi in Cina sono più che raddoppiati nell’ultimo decennio, superando quelli dei vicini Paesi del Sud-est asiatico come Thailandia e Vietnam. A ciò si unisce anche la disoccupazione giovanile: a giugno 2023 l’Ufficio nazionale di statistica ha registrato un tasso di disoccupazione nella fascia 16-24 anni del 21,3%.

Ma l’invecchiamento della popolazione sta portando all’emersione di nuovi settori dedicati. Questa settimana Pechino ha colto l’iniziativa con un piano per sviluppare una silver economy che si rivolge agli anziani con prodotti e servizi su misura, e il cui mercato è stimato in trilioni di dollari.

I consumi legati alla salute, che vanno dai dispositivi medici ai prodotti farmaceutici, rappresenterebbero la quota maggiore della spesa tra la fascia di età più anziana. Ciò consentirebbe di dare impulso alle aziende farmaceutiche cinesi, che hanno subito il rallentamento del settore con il rallentamento dell’effetto Covid-19.

La crisi demografica – apparentemente quasi completamente irreversibile – potrebbe travolgere la stabilità economica e finanziaria del Dragone. Come e se il governo di Pechino riuscirà a risolvere il problema sarà allora cruciale per il futuro della Cina come superpotenza e leader mondiale.

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