Lettere

Le lettere alla direttrice

Cristina Sivieri Tagliabue

Pubblicità: così fan tutti

Tempo di lettura 10 min lettura
10 luglio 2023 Aggiornato alle 13:00

Gentile direttrice

Ho imparato a mie spese cosa significa alzare la voce, esporsi, schierarsi da una parte che mi sembra giusta e farlo a modo mio - che di certo può non sempre essere il migliore dei modi possibili, ma è il mio, appartiene a me e sta dentro il mondo che ho costruito, dove i confini di ciò che è giusto e ciò che non lo è sono nettissimi e non negoziabili - e i risultati non sono stati certo brillanti (ma da quello che sto leggendo in giro direi per nessuna).

Fatta questa premessa: le molestie. La racconterò facile perché è l’unico modo che ho in questo momento e la racconterò assumendomi la responsabilità politica di ogni parola che userò di qui in avanti.

C’è una narrazione molto pericolosa che se ne va in giro indisturbata nelle agenzie, tra chi il potere lo ha e se lo tiene ben saldo e in genere lo usa per nutrire bulimicamente il proprio ego, ed è il primo piccolissimo e apparentemente scollegato tassello su cui si innestano tutta una serie di comportamenti sbagliati.

Perché siamo tutti d’accordo che le molestie siano sbagliate ma alcune sono un po’ più sbagliate di altre. Se questa fosse una lezione di scrittura creativa parleremmo di punto di vista, ma non lo è, e quindi per facilità parleremo di genere del protagonista.

Il genere del protagonista è tutto, non in questa vicenda ma in ogni possibile vicenda umana.

Perché non so, ma in questo mese o poco più mi è sembrato di star dentro a un gigantesco sogno lisergico dove le cose si capovolgono e la materia si disfa, si dilata e si allunga come dentro al Surrealismo di Dalì.

Lo dico perché non vivo nel paese di Barbie dove tutto è rosa e fantastico ma vivo qua nel’A.D. 2023 dove parlo, ho parlato, ho alzato la voce e mi sono schierata e dove il genere che ti appartiene dalla nascita ti segna irrimediabilmente.

E quindi, per genere, sono stata la femminista (detto come un insulto, chiaramente), la frigida, la rompicoglioni, la pazza, quella in cerca di attenzioni, quella pericolosa, quella quella quella. Dove in ogni luogo di lavoro che ho frequentato non mi sono mai tirata indietro dal portare non solo le mie competenze, ma anche le critiche a ciò che mi sembrava irrimediabilmente sbagliato. E dove ogni santa volta mi è stata fatta terra bruciata intorno, non importa quale fosse l’oggetto del contendere.

La rompicoglioni, anche la puttana, talvolta. Di certo, almeno due in faccia e chissà quante volte alle spalle. Sono anni, decenni, che si parla di molestie. Sono anni, decenni che si parla di clima tossico, di soprusi, di micro e macro aggressioni, di chi sa e chi non sa farsi la famosa risata che ci dovrebbe sempre essere nell’industry più allegra e disinibita che ci sia.

Solo pochi mesi fa, Gentilissima Rivolta è stata mandata a cuccia sfoderando potentissimi studi legali, e non ho bisogno di fare il recap della faccenda. E sono anni che le voci delle donne sono cadute nel vuoto.

Il genere del protagonista è tutto, perché se sei una protagonista di una storia di molestie, di mobbing, di soprusi di certo passerai per quella che nasconde qualcosa e il tuo primo, primissimo pensiero è che non lavorerai più.

Poi, non ti crederanno. Poi, ti faranno shaming, su tutti i livelli possibili. Poi, la tua salute mentale se ne andrà a farsi benedire. Poi, chissà se ci riprende mai da cose così. Soprattutto quando un lavoro non ce l’hai più.

Però, plot twist, se il tuo genere è maschile allora le cose cambiano. Se il tuo genere è maschile improvvisamente anni e anni di condotte al limite della miseria umana diventano un motivo buono per dare un imprinting tutto testosteronico alla faccenda.

In queste settimane, ho letto tutto e - colpo di scena - il mee too delle agenzie ha un sacco di voci protagoniste maschili.

Il più grande scandalo dell’industria della comunicazione degli ultimi 40 anni è interamente raccontata dagli uomini. Gli uomini che escono allo scoperto, gli uomini con pseudonimi di donne che conducono mirabolanti interviste, gli uomini che “c’ero anche io”, gli uomini che si dissociano, gli uomini che dicono che “le copy devono essere fiche e scosciate”, gli uomini che si autoproclamano su LinkedIn dalla parte dei giusti (non lo sono, li conosciamo tutti), quelli che #notallpubblicitari, quelli che invitano le donne a denunciare, se no non se ne fa niente. Pure quelli che pensano: “Questo è il ringraziamento?”

Improvvisamente schiere e schiere di maschi che per anni e anni hanno contribuito, visto, sono stati omertosi, hanno sminuito le nostre istanze e silenziato le nostre voci o addirittura hanno molestato SANNO TUTTO DI COSA DOVREMMO FARE, COME DOVREMMO SENTIRCI, QUALI SONO I FONDAMENTALI DEL ME TOO DELLE AGENZIE.

Ho letto che se non facciamo i nomi allora tutto questo polverone non sarà servito a niente. Perché è qui il fulcro della faccenda: dobbiamo essere grate. Dobbiamo fare come ci viene detto. Dobbiamo eseguire e rendere grazie. In fondo, lo stanno facendo per noi. Perché anche qui, se ci fosse il narratore onnisciente saprebbe che questo è un copione già visto, trito e ritrito, uno schema patriarcale seguito alla lettera.

E quindi ci ritroviamo il Santo, il Paladino, e i mostri, quelli non umani, non come noi che guardate, addirittura ci facciamo i postarelli su LinkedIn per dirci allo specchio di quanto siamo buoni e giusti.

Uomini colti improvvisamente in massa da un’epifania, gli stessi che erano in agenzia con noi e che presumibilmente coprivano, tacevano, si giravano dall’altra parte quando non ci ostacolavano, ci licenziavano, ridevano, ci toccavano, ci portavano dal cliente, ma solo se eri abbastanza carina.

Eppure, sempre detto facile, migliaia di nostre voci non sono state niente. Ci è voluto - per l’ennesima volta, ma il narratore onnisciente avrebbe dovuto saperlo questo - un uomo, due uomini, un uomo che si firma da donna PER CREDERCI.

E che succede poi se una di noi non fa come le viene chiesto? La si mette alla pubblica gogna, la si sminuisce, di lei si dice che è una “sconosciuta in cerca di visibilità”, una che si “è accodata con la partita iva in bella vista”, una che ha “raccolto sfoghi”, mica che fa qualcosa di concreto.

La solita sciacquetta, insomma. Ricalcando fedelmente una delle dinamiche sessiste conosciute ormai pure dai muri, delle agenzie.

Mi permetto di dire una cosa. Non è così che si è buoni alleati. Allearsi vuol dire prendere il potere e lo spazio che si ha e metterlo a servizio degli altri, delle altre, in questo caso. Come già nel 2016 diceva il blog di Non Una Di Meno: “gli uomini che vogliono essere femministi non hanno bisogno di ricevere spazio nel femminismo. Devono prendere lo spazio che hanno nella società e renderlo femminista”.

Non è intestandosi la lotta che la lotta può produrre cambiamento (e cito Monica Rossi: “La verità è che è partito tutto da un uomo e quest’uomo si chiama Massimo Guastini.”)

Non è usando gli schemi patriarcali che si combatte il patriarcato. E soprattutto, cosa estranea al genere maschile, la lotta è una lotta di genere, non un palcoscenico dove diventare grotteschi dimenticandosi il motivo per cui quella lotta esiste.

La grande assente di questa storia è la voce: quella delle donne, l’unica che dovrebbe essere ovunque in questi giorni.

Invece, non appena una voce si alza si rimette immediatamente al “suo posto”. Guarda che ti succede se non fai come diciamo noi. Noi, che possiamo fare il cazzo che ci pare da sempre. Vedi? Lo facciamo anche ora, anche quando il tema siete voi.

Chissà se esistesse un test di Bechdel per questa vicenda quale sarebbe il risultato. Il test di Bechdel - cito da Wiki- è un metodo utilizzato per valutare l’impatto di personaggi femminili nelle trame delle opere di finzione. Il test consiste nel verificare se un’opera contiene almeno due personaggi femminili che parlano tra loro di un qualsiasi argomento che non riguardi un uomo.

Che impatto hanno le donne in questa storia? Chi la sta raccontando? Come, e su cosa si mette l’accento? Con che modalità viene gestito il dissenso delle donne in merito a qualcosa che riguarda loro?

Io a questa narrazione voglio dire no. A questo costante mansplaining su come mi dovrei sentire e cosa dovrei fare (“senza denunce sono solo sfoghi”) voglio dire no. Perché so esattamente come ci si sente a subire aggressioni, soprusi e molestie. So cosa vuol dire andare a scavare col cucchiaio nel passato che ritorna prepotente a ogni parola e fa un male cane. So che vuol dire perdere tutto, per colpa di un uomo, due, tre. Ma anche di donne che ricalcano fedelmente gli schemi sessisti.

So quanto fa male ricordare, so pure quanti soldi servono per elaborare decentemente un trauma un’ora a settimana davanti a una tizia che ti ascolta. Lo so perché tra donne abbiamo iniziato a parlare e la ridondanza delle storie, con gli stessi schemi, pattern direbbe un Art Director, è invisibile solo a chi ha il culo sempre al caldo del suo privilegio.

So che se c’è una cosa che le donne femministe non farebbero mai è aver voglia di vendetta, come se non fosse una questione di genere ma una questione personale. So che lo spazio della lotta è sacro e che le voci devono essere quelle di chi le storie non le racconta da fuori, ma le vive. Si chiama “passare il microfono”, e sì, è una pratica femminista. So che la sorellanza è difficile, ma è una delle cose più potenti che ho sperimentato per riprendermi il mio sacrosanto posto nel mondo.

Per questo, continuare a blaterare contro chi non denuncia non solo ha la stessa matrice del victim blaming ma è profondamente irrispettoso per chi una denuncia non se la può permettere: denunciare è un privilegio, pensavo che ormai fosse una cosa acclarata.

Mi hanno insegnato che quando una narrazione non ci piace o è sbagliata abbiamo un grande potere: costruire contro narrazioni. Ed è esattamente quello che sta facendo Re:B: un progetto che nasce con l’obiettivo primario di denunciare perché non ci si può più nascondere dietro al “non lo sapevo”. Con strumenti a sostegno (psicologici, emotivi e legali) che diano inizio a un cambiamento, culturale e radicale.

Tutti sapevano. Nessuno ha fatto niente. Per essere d’aiuto bisogna scendere dal palco. Guardarsi da vicino, trovare gli indizi del maschilismo (che ora è inconsapevole) dentro ciascuna persona. Chiedersi: cosa ho in comune con tutto questo? Chiedersi: cosa sto facendo di diverso? Che dinamica di potere sto interrompendo?

E poi, trovare il modo giusto per ascoltare.

Carolina F.

Cara lettrice

Quando ho letto quello che sta accadendo nel mondo dell’advertising italiano ho pensato: quanto ci vorrà perché il #metoo esploda nel giornalismo?

Sono cresciuta vivendo esperienze molto simili alle sue, mi sono trovata in situazioni al limite del raccontabile ma ho sempre cercato di portare prima di tutto, la competenza.

Però sono stata zitta. Però non potevo fare altrimenti. Non mi hanno mai chiamato “rompiscatole” ma passo per una secchiona precisina. Una figura comunque parecchio antipatica, che si chiama non per i pezzi divertenti, ma per quelli che altri non sanno fare.

Anche nel giornalismo - ma lo vediamo tutti i giorni - la questione dell’abito è centrale. E la voce di chi dirige, è per la maggior parte maschile (con tristezza pochi giorni fa anche Norma Rangeri ha lasciato la direzione de Il Manifesto, ma ne potrei citare decine, come anche Angela Azzaro, vicedirettrice de L’Unità, lasciata a casa per motivi che non ho compreso).

Il giornalismo ha da tempo un’associazione, Giulia, che tutela la categoria, e anche l’Ordine dei Giornalisti certe volte interviene correttamente.

La cosa che mi fa più impressione di tutte è che noi che apparteniamo al mondo della “comunicazione”, che dovremmo essere le prime ad aver aperto la pista sui temi di genere, siamo in realtà le categorie culturalmente più antiche.

Perché si sa, cultura e creatività, la fanno meglio gli uomini. Basta vedere quello che ha scritto Filippo Facci due giorni fa a proposito di una ragazza che ha trovato il coraggio di denunciare una violenza. Per fortuna, è stato redarguito. Ma sono certa che questa singola cosa non basterà.

Bisognerà ripeterla ogni volta, allo sfinimento.

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