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Ambiente

Il ruolo delle lobby nel settore agroalimentare minaccia l’azione climatica

Le attività di lobbying influenzano direttamente i nostri consumi e la nostra salute. La lobby della carne è l’emblema di un sistema dominato dal conflitto di interessi che blocca l’azione climatica
di Emma Cabascia

Transparency International (Ti), un’organizzazione internazionale non governativa impegnata nel contrasto a ogni forma di corruzione statale, aziendale e sociale, definisce il lobbying come “qualsiasi attività svolta per influenzare le politiche o le decisioni di un governo o di un’istituzione in favore di una causa o di un risultato specifico.”

Primo caveat necessario.

Di per sé, non c’è niente di intrinsecamente sbagliato nel condurre attività di lobbying. Come sottolinea la stessa Ti, il lobbying può essere considerato “parte di ogni sistema democratico sano”.

A patto che sia condotto secondo criteri di trasparenza e integrità, il lobbying è un’opportunità legittima per i gruppi di interesse di partecipare al processo deliberativo di elaborazione delle leggi.

Tuttavia, in mancanza di regolamentazioni chiare che garantiscano la rappresentatività degli interessi di tutti i soggetti coinvolti, le attività di lobbying possono avere un effetto distorsivo.

Ciò accade molto di frequente, specialmente quando il potere economico e politico di influenza è sbilanciato a favore di un numero molto esiguo di aziende, istituzioni o singoli individui.

Probabilmente anche in virtù dell’aura di mistero che avvolge il termine stesso, per molti evocativo di una discreta dose di astrazione e intangibilità, si fa spesso fatica a comprendere quanto questo tipo di atti riesca a impattare sulla nostra quotidianità, con conseguenze dirette sulle nostre scelte di consumo e sulla nostra salute.

Se un tempo le attività di lobbying convenzionalmente intese vedevano il coinvolgimento di aziende che assumevano professionisti ingaggiandoli per promuovere e avanzare determinati interessi, oggi l’innovazione tecnologica contribuisce a una notevole diversificazione dei canali di lobbying più tradizionali.

Le strategie più utilizzate dai lobbysti

È giusto quindi chiedersi quali siano, in un mondo sempre più globalizzato e interconnesso, le principali strategie messe in atto dai lobbysti.

Grazie alle piattaforme online, è sempre più comune che siano Ong, gruppi industriali o singole aziende a lanciare campagne di lobbying. Eppure, come specificato da Food Unfolded, le modalità attraverso cui questo sottile ma spietato gioco di influenze si manifesta possono assumere forme molto diverse: si va dal coinvolgimento diretto di figure politiche, al finanziamento di articoli accademici o alla promozione di campagne social.

Il finanziamento di uno studio da parte di una data industria, in inglese industry-funded research, è ancora la pratica più utilizzata, ascrivibile alla tipologia di lobbying più antica di tutte: la direct lobby.

Se è un’industria a pagare un centro di ricerca, o un giovane accademico per la realizzazione di uno studio scientifico su un tema di interesse, è logico assumere un rischio piuttosto alto di parzialità delle sue conclusioni.

È infatti cosa nota che gli studi finanziati dall’industria tendano a produrre risultati favorevoli ai loro sponsor.

Come spiegato nel saggio Climate Cover-Up: The Crusade To Deny Global Warming, quella della industry-funded research è la stessa tattica adottata negli anni ’70 e ’80 dalle principali industrie di combustibili fossili (Exxon, su tutte), tra le prime a finanziare studi sul cambiamento climatico per poi affossarne – fallendo – i risultati, che confermavano la componente antropica del riscaldamento globale allora già in corso.

Più di recente, il mondo digitale dell’advocacy è diventato l’altra prerogativa dei lobbysti.

Fenomeno definito dagli addetti ai lavori come grassoroots lobbying, è in continua crescita il numero di aziende e gruppi di pressione che sfruttano i principali canali social per la realizzazione di operazioni mediatiche finalizzate a plasmare e a distorcere la percezione pubblica su un tema, spesso degenerando in vere e proprie campagne di disinformazione.

Per l’immediatezza dei contenuti e dei messaggi veicolati, per la possibilità di raggiungere un’audience più giovane, nonché per l’opportunità di creare un ponte di comunicazione diretto tra elettori e politici, negli ultimi anni le pratiche di online lobbying messe in atto grazie all’utilizzo di piattaforme come Instagram e Tik Tok stanno acquisendo sempre più rilevanza.

Lobbying pigliatutto: la pervasività delle attività di lobbying

Ma di che cosa si occupano principalmente i lobbysti?

La risposta, in questo caso, è molto semplice: di qualunque cosa.

Chi è coinvolto in attività di lobbying si occupa di tutto ciò che può influenzare il proprio business. La logica, come sempre, è quella del profitto.

Certo, va detto che la maggior parte dei finanziamenti arriva da industrie specifiche, come quella farmaceutica, assicurativa, bancaria, ma anche dall’industria della difesa, petrolifera e del gas.

In questa sede, vogliamo portare la vostra attenzione sulle aziende di Food and Beverage (F&B), aziende che operano, cioè, nel settore agroalimentare.

Nel 2020, dati del Center for Responsive Politics hanno evidenziato che 30 tra le più grandi aziende del settore F&B (tra cui figurano multinazionali del calibro di Coca-Cola, PepsiCo e AB InBev), hanno speso collettivamente quasi 40 milioni di dollari per attività di lobbying orientate a influenzare decisioni politiche nell’ambito dell’agrobusiness.

Non sorprende che gli sforzi di lobbying effettuati dalle compagnie F&B riguardino una molteplicità di settori: oltre a quello agroalimentare e ambientale, che rappresentano un’assoluta priorità, queste aziende stanno investendo sempre più risorse anche nei settori dei trasporti, dell’antitrust, delle politiche fiscali e del bilancio.

Proprio in occasione della diffusione dei dati sopra riportati, Marion Nestle, biologa molecolare ed ex docente di alimentazione e salute pubblica alla New York University, aveva dichiarato al giornale FoodDive: “È difficile pensare a un singolo settore della politica alimentare o nutrizionale che non sia soggetto a lobbying.”

Non solo Big Oil: come la lobby della carne minaccia l’azione climatica

Nei paragrafi precedenti abbiamo cercato di spiegare in che cosa consistano le pratiche di lobbying, chiarito il livello di pervasività che le caratterizza, definito le strategie più utilizzate nonché i settori più coinvolti.

Dopo avervi fornito delle cifre utili a orientarvi nel mondo delle Food&Beverage, è giunto il momento di concentrarci su un’industria in particolare.

Un’industria che più di altre sta finanziando campagne di disinformazione, spesso ricorrendo alla complicità (leggi corruzione) di figure istituzionali e politiche, con l’obiettivo di influenzare politiche climatiche e ambientali che promuovono una riforma del sistema di produzione agroalimentare.

Non vogliamo tenervi troppo sulle spine: la nostra osservata speciale è l’industria della carne.

Nel dibattito pubblico, quando si parla del legame tra lobbying e cambiamento climatico si pensa immediatamente, e a ragione, ai milioni di dollari spesi dai giganti del fossile per operazioni di greenwashing che hanno lo scopo di confondere e distrarre il consumatore dal contributo catastrofico che petrolio e gas stanno dando al riscaldamento globale.

Sia chiaro: è giusto che si punti il dito contro le grandi industrie di Oil&Gas, a cui si attribuisce la responsabilità della maggior parte delle emissioni rilasciate in atmosfera nell’ultimo secolo e mezzo.

Non possiamo però non accorgerci che l’industria della carne, così come quella legata ai derivati animali, stanno facendo esattamente la stessa cosa.

Sebbene le loro attività vengano molto spesso occultate e oscurate grazie al fortissimo conflitto di interesse dei grandi gruppi industriali che agisconoda fiancheggiatori, le lobby della carne rappresentano una parte altrettanto importante del problema, specialmente nel panorama politico europeo dove il loro potere di influenza è radicato e capillare.

Nel 2021, uno studio dell’Università di New York ha rivelato che le cosiddette Big Meat Industries hanno speso milioni di dollari tentando offuscare i legami tra gli allevamenti intensivi e la crisi climatica.

Questo a dispetto di cosa ci dice la scienza. Dati Fao hanno stabilito che circa il 14% delle emissioni globali di gas serra proviene dalla produzione di carne e latticini, e che il 60% delle emissioni derivanti dal settore agroalimentare è attribuibile alla sola industria della carne.

Come accennato prima, sempre più spesso i lobbisti operano sulle piattaforme social per massimizzare il proprio potenziale di influenza.

Le lobby della carne non fanno eccezione, e riescono ad amplificare la propria voce ingaggiando influencers, personaggi pubblici e persino politici al fine di nascondere l’impatto ambientale degli allevamenti intensivi.

Il rapporto Truth, Lies and Culture Wars, pubblicato nel 2023 da Ripple Research e commissionato dalla fondazione no-profit Changing Markets, ha identificato quasi 1 milione di post online, principalmente provenienti da X e Reddit, che si scagliano contro le proteine vegetali esagerando sui benefici del consumo di prodotti animali, di fattodisconoscendo quanto stabilito dalle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms).

Ma non finisce qui.

Secondo quanto riportato dal giornalista Michael Thomas in Distilled, la sua newsletter personale dedicata al clima, persino nell’ultimo rapporto di sintesi dell’Ipcc ci sarebbe lo zampino della Meat Lobby.

Come sottolinea Thomas, gli autori del report avevano inizialmente proposto di inserire tra le raccomandazioni per contrastare il cambiamento climatico il passaggio a diete a base vegetale.

Secondo una bozza trapelata da Scientist Rebellion, la formulazione avanzata dagli scienziati avrebbe dovuto recitare: “le diete a base vegetale possono ridurre le emissioni di gas serra fino al 50% rispetto a una dieta occidentale media ad alta intensità di emissioni”.

Eppure, pare che a seguito delle pressioni politiche di delegati di Brasile e Argentina (due tra i maggiori Paesi produttori mondiali di carne), questa indicazione sia stata esclusa dal testo finale, che si limita invece a incoraggiare i singoli a seguire “diete sane, equilibrate e sostenibili che tengano conto delle esigenze nutrizionali”.

Tutta un’altra storia, insomma.

Il caso esemplare della Dublin Declaration

Prima di concludere, vogliamo lasciarvi con un caso di studio piuttosto recente ed emblematico nel mostrare i tentativi della lobby della carne di influenzare le decisioni dei governi relative alla produzione alimentare attraverso la pubblicazione di ricerche e dichiarazioni spacciate come “indipendenti” e promosse da pensatori liberi.

Secondo noi, l’esempio più calzante non poteva che essere la Dublin Declaration. Pubblicata come manifesto nell’ottobre 2022 e confluita nella rivista accademica Animal Frontiers lo scorso aprile, la Dichiarazione degli Scienziati sul Ruolo Sociale della Carne – credeteci o no, è davvero questa la traduzione letterale del titolo per esteso – la Dichiarazione, lunga poco più di una pagina, si prodiga per difendere i benefici nutrizionali, ambientali e sociali della produzione di carne.

In particolare, essa afferma di voler “dare voce ai numerosi scienziati in tutto il mondo che conducono ricerche diligentemente, onestamente e con successo nelle varie discipline al fine di ottenere una visione equilibrata del futuro dell’agricoltura animale”, aggiungendo anche che il bestiame “è troppo prezioso per la società per diventare vittima di semplificazioni, riduzionismi o fanatismi”.

Non è chiaramente una coincidenza che la Dublin Declaration sia considerata come un testo sacro da European Livestock Voice (Elv), il principale gruppo di lobbying dell’industria della carne a livello europeo.

In occasione della diffusione del documento, il portavoce di Elv, Andrea Bertaglio, ci aveva tenuto a sottolineare la totale estraneità dei quasi mille scienziati firmatari all’industria del bestiame.

Bertaglio mentiva sapendo di mentire. Documenti diffusi da Unearthed di Greenpeace hanno rivelato che quattro dei sei autori della Dichiarazione risultano affiliati all’industria agroalimentare.

Recentemente, The Guardian ha poi fatto trapelare che la Global Meat Alliance, una rete delle principali industrie della carne a livello mondiale nata con l’obiettivo di “creare una narrativa positiva sull’industria della carne”, aveva pubblicamente partecipato a campagne mediatiche di promozione del documento.

La giornalista Silvia Lazzaris, in un articolo d’inchiesta pubblicato lo scorso gennaio, si è spinta persino oltre, determinata a scovare eventuali affiliazioni sospette anche tra gli scienziati che hanno sottoscritto il testo.

Neanche a farlo apposta, la sua indagine ha dimostrato che il 60% dei firmatari aveva legami economici e politici con l’industria del bestiame.

Non disperate. Ci sono anche buone notizie… Se siete interessati ad approfondire ulteriormente questo argomento, nei prossimi giorni troverete sulle pagine di La Svolta un’intervista esclusiva a Giulia Innocenzi, autrice del documentario FoodForProfit, un frutto di un lavoro giornalistico d’inchiesta molto coraggioso e che mostra senza filtri il rapporto complicato, e molto spesso oscuro, che lega l’industria della carne, le lobby dell’agrobusiness e la classe politica.

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