Ambiente

Nuovo anno e nuovo corso per gli abiti di cui disfarsi

Il ministero della Transizione ecologica non ha ancora definito regole e obiettivi chiari, ma dal 2022 riciclare gli oggetti in tessuto sarà obbligatorio per legge
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 3 min lettura
3 gennaio 2022 Aggiornato alle 11:00

Avete mai buttato nel cestino dell’indifferenziato un calzino bucato? Un collant strappato? Una maglia mangiata dal cane? Se vi è capitato, sappiate che dall’1 gennaio non potrete più farlo: nel 2022 scatta l’obbligo della raccolta differenziata del tessile. Una novità che anticipa di tre anni l’attuazione di uno dei decreti del “Pacchetto di direttive sull’economia circolare” adottato dall’Unione europea nel 2018. Riciclare gli oggetti in tessuto sarà dunque obbligatorio, anche se il ministero della Transizione ecologica non ha ancora definito regole e obiettivi chiari. Nonostante sia mancata, fino a oggi, una regolamentazione nazionale, in Italia la pratica è già molto diffusa. Lo dimostrano i dati: la raccolta differenziata dei rifiuti tessili è cresciuta dell’8% nel 2020, secondo la Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile e l’Unione Imprese Economia Circolare. E nello stesso anno sono state differenziate 143,3 mila tonnellate di rifiuti tessili, come mostra il “Rapporto sui rifiuti urbani” pubblicato a dicembre dall’Ispra.

Unicircular, inoltre, riporta che in Italia riutilizziamo già il 65 - 68% di questi particolari rifiuti urbani: ogni Comune effettua già, secondo le sue modalità, la raccolta del tessile in forma permanente (e finora non obbligatoria, ricordiamolo). Un ottimo punto di partenza rispetto ai nuovi obblighi europei, anche se la gestione di questi materiali dovrebbe essere coordinata su base regionale, non lasciata alle singole iniziative locali. Inoltre, un incremento dei punti di raccolta spingerebbe i cittadini a non buttare i vestiti nell’indifferenziato, il cui 5,7%, nel 2019, era costituito proprio da tessuti. Meglio usare i cassonetti a hoc e le isole ecologiche.

Da qui, dopo la raccolta e la fase di deposito temporaneo, i rifiuti possono essere inviati agli impianti di trattamento dove vengono effettuate lavorazioni di selezione finalizzate a riutilizzo, riciclo o smaltimento. Che differenza c’è? Nel primo caso, che riguarda il 68% del totale, i tessuti vengono rimessi in commercio nei cicli di consumo nazionali o esteri. Dal riciclo, che interessa il 29% dei materiali, si ottengono invece stracci o materie prime (ormai seconde) per nuove stoffe per l’industria tessile. Se il rifiuto non è più valorizzabile in alcun modo, viene smaltito: succede al 3% del totale.

Secondo i dati di Ecomondo e di FISE Unicircular - l’Associazione delle Imprese dell’Economia Circolare -, negli ultimi 25 anni il consumo di abbigliamento in Ue è aumentato del 40%, per un totale pro capite di 26 kg all’anno. Ma come fa l’industria del tessile a impattare così tanto? L’avvento del “fast fashion”, negli anni Novanta, ha pesato considerevolmente sull’ambiente: il fenomeno, che ha determinato un calo dei prezzi degli indumenti del 30% al netto dell’inflazione dal 1996 a oggi, ha comportato il consumo eccessivo di acqua e di suolo per la coltivazione delle fibre naturali, il loro inquinamento nei vari processi di lavorazione e la dispersione di microplastiche durante i lavaggi dei capi sintetici, non facilmente riciclabili. Per esempio, nel 2015 l’industria tessile ha utilizzato 79 miliardi di metri cubi di acqua, perché per realizzare una maglietta occorrono in media 2.700 litri di acqua: è il fabbisogno idro-potabile di una persona in circa due anni e mezzo. E, a oggi, i produttori non sono ancora responsabili dell’intero ciclo di vita del prodotto, che include anche ritiro, riciclo e smaltimento finale.

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