Ambiente

3 milioni di mascherine al minuto: ecco l’altro impatto del Covid-19

Ogni mese consumiamo 129 miliardi di mascherine. Di plastica. Dove finiscono?
di Chiara Manetti
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
2 dicembre 2021 Aggiornato alle 16:42

Per ogni secondo che passa vengono smaltite 49.800 mascherine, per un peso complessivo di 174,3 chili, l’equivalente di due scooter. Al minuto ne consumiamo 2.9 milioni, al mese 129 miliardi. Ed è un problema. Le mascherine sono fatte di polipropilene, un polimero presente in molti oggetti di uso comune, come i tappi delle bottiglie. Essendo fatte di plastica composita e potenzialmente infette, non possono essere riciclate e vanno gettate nell’indifferenziato. E spesso si disperdono nell’ambiente. Se ne mettessimo sessanta l’una accanto all’altra, coprirebbero un’area di 1 mq: 2,9 milioni di mascherine al minuto equivalgono a 4.964 mq, quasi 4 volte una piscina olimpionica.

Durante la pandemia, diversi tipi di dispositivi di protezione individuale sono stati utilizzati in tutto il pianeta. Come dicevamo, le mascherine sono fatte di plastica composita, non di carta, e come materiali potenzialmente infetti non possono essere riciclati. Anzi, vanno gettati nell’indifferenziato. Ma non sempre questo accade. Spesso si disperdono nell’ambiente. E dove vanno a finire, quelle che ogni giorno consumiamo?

L’American Chemical Society registra che ogni mese nel mondo ne vengono usate (e gettate) circa 129 miliardi. Il 75% delle mascherine usate e degli altri dispositivi di protezione monouso correlati al Covid-19 sono destinati a finire nelle discariche o negli oceani. E secondo l’associazione Oceans Asia, solo nel 2020 un miliardo e mezzo di mascherine usa e getta sono state cullate dalle onde dei nostri mari.

Pensare al loro smaltimento non è stata e non è ancora la priorità dei governi del pianeta. Basti pensare a Roma, dove neppure i rifiuti normali trovano pace. E tuttavia, col passare dei mesi i materiali igienico sanitari associati alla pandemia si sono accumulati, accumulati, accumulati. Mettendo a dura prova un sistema già in bilico.

Uno studio pubblicato dalla rivista americana PNAS ha lanciato l’allarme: “La pandemia ha portato a un aumento della domanda di plastica monouso che ha intensificato la pressione su un problema globale dei rifiuti di plastica già fuori controllo”.

Quali sono le proporzioni del danno? Fino a oggi sul pianeta Terra sono state generate più di 8 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica derivanti dalla diffusione del coronavirus. Secondo gli scienziati Yiming Peng e Peipei Wu dell’Università di Nanchino, autori della ricerca “Rilascio di rifiuti di plastica causato da Covid-19 e il loro destino nell’oceano globale”, entro la fine del secolo quasi tutta la plastica generata dalla pandemia finirà sui fondali marini o sulle spiagge. Quasi la metà di tutto questo disastro - il 46% dei materiali - proviene dall’Asia, in cui viene prodotto il maggior numero di mascherine sia per l’esportazione che per la vendita sul territorio nazionale, seguita dall’Europa al 24%, e dal Nord e Sud America al 22%.

Certo, la questione è spinosa. Le mascherine ci servono. Le mascherine inquinano. E la plastica, che volevamo eliminare anche seguendo le direttive Ue, è ritornata inevitabilmente anche nella vita di chi non la voleva più. Non solo. La pandemia ha dimostrato il ruolo indispensabile della plastica nel settore sanitario e nella salute pubblica. Visto l’eccellente rapporto resistenza/peso, la loro durata e il basso costo di produzione, le materie plastiche sono le più utilizzate per strumenti, attrezzature e imballaggi usa e getta.

Il tema non è “solo” la mascherina, ma anche il suo imballaggio, a sua volta di plastica. Ogni giorno la maggior parte delle persone che vivono su questo pianeta utilizzano una mascherina usa e getta. Ma così facendo, il rischio è di produrre quotidianamente vere e proprie montagne di rifiuti.

Enzo Favoino, Presidente del Comitato Scientifico di Zero Waste Europe, propone delle soluzioni: “ad un certo punto, per affrontare la pandemia in sicurezza, sembrava avremmo dovuto impacchettare il mondo. Ma se si aumenta il ricorso all’usa e getta, in realtà cresce il flusso di materiali che entra nella nostra sfera personale. E questo non incrementa la sicurezza, ma la vulnerabilità”. Secondo Favoino, la confezione usa e getta protegge il contenuto, ma l’imballaggio stesso può essere stato toccato da chiunque. Ed ecco quindi la sua soluzione: “il percorso più sicuro per contenere la diffusione del virus è il riutilizzabile”.

Non è un’idea fuori dal mondo. Anche le istituzioni stanno iniziando a parlare delle cosiddette mascherine di comunità. Che, come si legge sul sito del Ministero della Salute, “hanno lo scopo di ridurre la circolazione del virus nella vita quotidiana e non sono soggette a particolari certificazioni. Non devono essere considerate né dispositivi medici, né di protezione individuale, ma una misura igienica utile a ridurre i contagi da Sars-Cov-2”.

Inoltre, possono essere lavate a 60° seguendo le istruzioni relative al numero massimo di lavaggi possibili, prima che si riduca il livello di performance. E solo in caso di sintomi riconducibili a un’infezione respiratoria, “è necessario l’utilizzo di mascherine certificate come dispositivi medici”. E le mascherine di stoffa non sono le uniche lavabili. Un recente studio pubblicato dal centro di ricerche cliniche dell’Ospedale universitario di Grenoble, in Francia, ha spiegato che anche quelle chirurgiche in polipropilene - il materiale che le rende impermeabili - possono essere lavate e riutilizzate fino a 10 volte.

Questa logica di riuso purtroppo non viene contemplata nelle scuole, che vengono fornite quotidianamente di valanghe di mascherine chirurgiche monouso: dall’inizio della distribuzione ad aprile 2021 il Ministero della Salute ne ha contate più di un miliardo e mezzo. “Basterebbe una autocertificazione in cui si attesti l’utilizzo di una mascherina propria, anche di comunità - spiega Favoino - per non dover distribuire tutte quelle che vengono fornite dal Ministero. E con un conguaglio si potrebbe comunicare la cifra di avanzo per farsene arrivare meno il mese successivo. Oppure distribuire quelle avanzate attraverso donazioni a Rsa, ospedali e senzatetto”.

Un anno fa Legambiente aveva lanciato un appello al governo e ai dirigenti scolastici per ricorrere all’utilizzo di mascherine di comunità, per un uso più sostenibile dei dispositivi di protezione individuale. Ma i numeri forniti dal governo parlano chiaro: il riutilizzo non è ancora tra le priorità. “E le mascherine - continua Favoino - così come i guanti monouso, finiscono nelle discariche e, peggio ancora, negli inceneritori. La situazione si aggrava fuori dall’Italia, che con i suoi sistemi formali di raccolta è terza in Europa, dopo Slovenia e Germania, come tassi di raccolta differenziata”.