Lettere

Non tutte le persone sorde conoscono la Lingua Italiana dei Segni

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15 marzo 2024 Aggiornato alle 16:00

Gentili dottoressa Tagliabue e cara Azzurra,

Grazie intanto per avermi ascoltato. Non è per nulla scontato e per questo vi sono riconoscente dell’attenzione che mi avete riservato.

Mi presento per circoscrivere meglio il motivo del mio disappunto sull’articolo di Andrea Laudadio.

Sono la mamma di un bambino di quattro anni con una sordità neurosensoriale congenita profonda, causata da una ipoplasia al nervo cocleare. La notizia della diagnosi, arrivata tra l’altro in ritardo nel settembre del 2021, ci è piombata addosso inaspettatamente.

Prima di allora, nulla sapevamo della sordità, o meglio, delle sordità e, come buona parte della popolazione italiana, pensavamo che il destino di un bambino ipoacusico avesse a che fare con la Lingua Italiana dei Segni (LIS).

Senonché i medici ci spiegarono che un bambino sordo preverbale, se diagnosticato, protesizzato, impiantato e riabilitato precocemente avrebbe potuto sviluppare le competenze comunicative di un bambino udente. Non sarebbe stato necessario l’apprendimento della Lingua Italiana dei Segni.

Quando mi è capitato sotto il naso l’articolo del Sig. Laudadio mi sono cadute le braccia.

Il racconto mi è apparso subito anacronistico, parziale e persino lacunoso sotto tanti punti di vista.

Prima di entrare però nel merito, voglio fare una premessa, per evitare fraintendimenti. Chi scrive non è contraria alla LIS tout-court, né vuole delegittimarla o disconoscerla. Chi scrive è fortemente in disaccordo con una narrazione a senso unico che alimenta lo stereotipo che vuole la LIS come emblema dell’inclusione, così come nel caso del testo ospitato nella vostra rubrica.

L’esperienza del figlio udente dell’autore nella scuola smaldoniana è una testimonianza particolare, che nulla ha a che vedere con le sordità oggi. Il racconto mette al centro il fattore culturale della Lingua Italiana dei Segni come veicolo delle persone sorde. I toni che ne esaltano la connotazione inclusiva appaiono ingenui e al contempo ambigui, perché possono indurre il lettore a pensare erroneamente che tutte le persone sorde conoscano la Lingua Italiana dei Segni (LIS) e che quindi un suo eventuale apprendimento come seconda lingua da parte di una persona udente, sia la massima espressione di inclusione.

A una lettura più attenta, il messaggio però è pericoloso, perché omette di riconoscere l’esistenza di migliaia di persone sorde e ipoacusiche che non si sentono rappresentate né dalla Lingua Italiana dei Segni (LIS), né dall’idea che le persone sorde appartengano a una popolazione e cultura diversa da quella italiana.

Laddove è presente un tema identitario, allora coesiste un tema politico e di tutela di diritti. Se il fil rouge del testo dell’autore è il concetto di identità, allora sarebbe stato più corretto e aderente al vero parlare solo di una categoria di persone sorde: quelle che conoscono la Lingua Italiana dei Segni.

Infatti oggi, chi è sordo, grazie ai progressi della medicina (terapia genica e chirurgia robotica), tecnologia (impianti cocleari di ultima generazione e protesi all’avanguardia) e della riabilitazione logopedica, è in grado di comunicare verbalmente e sentire quasi come una persona udente. Non a caso il termine “sordomuto” è caduto in disuso dal 2006, come cita il Primo Articolo della Legge 20 febbraio 2006, n. 95.

Avrei quindi evitatato di generalizzare. Per semplificare e senza scendere in dettagli medici che non sono di mia competenza, oggi possiamo confermare che esistono: sordi segnanti che per motivi spesso ideologici non hanno mai voluto o potuto apprendere la lingua italiana e si esprimono solo attraverso la Lingua Italiana dei Segni (LIS), sordi oralisti protesizzati e impiantati tardi che parlano utilizzando un italiano intelligibile, aiutandosi anche con la labiolettura e sordi di nuova generazione, sordi preverbali protesizzati, impiantati e riabilitati precocemente (anche al di sotto dell’anno di età) che sono in grado di sviluppare competenze linguistiche allo stesso modo delle persone udenti.

In questa tripartizione vale la pena ricordare la componente generazionale che rispecchia giocoforza l’evoluzione della sordità: i sordi segnanti sono per lo più quelli più anziani, quelli oralisti (o bilingui) sono millennial e quelli di nuova generazione appartengono alla generazione Z.

Se entro nel merito dell’articolo, posso essere ancora più puntuale.

In incipit troviamo questo riferimento evangelico: “Il sordo guarì, iniziò immediatamente a sentire e a parlare. Gesù ordinò di non dire nulla a nessuno, ma più comandava di tacere, più la gente ne parlava pubblicamente”. Non giudico la scelta stilistica, tuttavia questa apertura allude a fatti di oltre duemila anni fa. Non è necessariamente vero che le persone sorde non siano in grado di sentire o di parlare. A parte in casi eccezionali in cui questo non avviene, le persone sorde dalla nascita possono anche lallare. Se però la tesi iniziale strizza l’occhio al prodigioso e al miracoloso, il passo verso l’abilismo e il pietismo (veri nemici della narrazione inclusiva) è breve.

Continuo con il passaggio successivo che introduce la scuola smaldoniana: “Scuole nate su impulso di San Filippo Smaldone, un sacerdote napoletano venuto al mondo nella metà dell’800 […] Filippo era convinto che: «non si può educare se non si ama», da qui l’elemento portante del suo carisma: la pedagogia dell’amore.

Tendere a educare, insegnare e correggere con amore, a modulare l’azione educativa per ogni alunna e alunno”. In queste righe sembra che il tempo delle persone sorde si sia cristallizzato all’800. Eppure, da allora a oggi sono passati secoli di progressi in campo medico e tecnologico che hanno contribuito all’evoluzione della sordità e della sua percezione. Il messaggio d’amore e la missione della scuola smaldoniana è legittimo, ma fortemente fuorviante dal punto di vista concettuale: non è l’educazione scolastica, così intesa, a “correggere”, bensì, - se proprio dobbiamo parlare di “correzione” – la riabilitazione logopedica.

Quello che possono fare le politiche scolastiche in termini di inclusione non è investire (solo) in formazione Lingua Italiana dei Segni (LIS), ma adeguare per esempio, dal punto di vista architettonico e tecnologico le aule con ausili didattici per le persone con deficit neurosensoriali, incrementare il numero di postazioni informatiche adattate, investire in formazione specialistica degli insegnanti di sostegno e degli assistenti alla comunicazione. Chiudo infine con questo passaggio: “Ho capito - tardi - che la superficialità è il primo grande nemico dell’inclusione. I sordi esprimono una cultura di cui la LIS è una delle sue manifestazioni principali. Questa cultura può contenere alcuni aspetti che possono rendere più difficile l’integrazione.”

Questa dichiarazione è forte e persino offensiva per le persone sorde oraliste e di ultima generazione che ho conosciuto in questi due anni, per il personale ospedaliero (audiologici, audiometristi, logopedisti, pedagogisti) e per noi caregiver che ogni giorno investiamo tempo ed energie per contribuire, tra alti e bassi, alla riabilitazione dei nostri figli.

La sordità è un deficit neurosensoriale, non un qualcosa di cui essere orgogliosi. Io voglio che mio figlio un giorno si senta orgoglioso non perché sordo, ma perché talentuoso a scuola o in uno sport o perché magnanimo e generoso verso gli altri.

Una corretta divulgazione è l’unica via possibile non solo per conoscere le disabilità, ma per proporre investimenti e soluzioni accessibili di cui può beneficiare una comunità intera.

Emanuela Goldoni

Gentile dott.ssa Goldoni,

grazie per la sua email.

Ho messo vicini, ho affiancato, il mio articolo alla sua lettera e mi sono chiesto cosa li accumunasse e in cosa divergessero.

Entrambi parliamo di una esperienza che riguarda i nostri figli, il mio udente, il suo sordo protesizzato. Raccontiamo due punti vista, lontani eppure vicini. Dalle sue parole e dalle mie si capisce facilmente quanto bene vogliamo ai nostri figli e quanto ci importi del loro sviluppo e della loro crescita. Scriviamo con la passione che si usa quando sono cose che riguardano i figli e con l’entusiasmo di chi è convinto di arricchire l’altro portando il proprio punto di vista e la propria esperienza.

Entrambi crediamo nella forza della libertà delle opinioni e nella bellezza del confronto che – seppur a distanza – ci sta appassionando.

Forse, accomuna entrambi il pensiero che l’altro non ci conosca o riconosca la nostra storia e abbiamo un po’ paura di questo. Siamo entrambi preoccupati, o forse è una mia proiezione, del mancato riconoscimento che a tenere la penna, mentre scriviamo, non è la mano ma il cuore. Lei si è sentita offesa dalle mie parole, io dalle sue (inizialmente) che mi sembravano rivolte a un altro ma sicuramente non a me.

La voglio rassicurare su un punto, mi è molto chiaro (anche per quello che faccio come mestiere) quali siano le condizioni di sordi segnanti e oralisti e quale sia l’evoluzione.

Credo ci accomuni, con livelli diversi derivanti dall’esperienza sicuramente per lei più profonda, che conosciamo il tema. Abbiamo sicuramente un diverso livello di coinvolgimento.

Io lo conosco, per il mio mestiere, da tempo, lei lo ha conosciuto insieme all’esperienza di suo figlio. Forse, ci accumuna che pensiamo di sapere tutto e ci dimentichiamo di conoscerne meglio una parte.

Nel mio punto di vista, nel mio racconto, si enfatizza la LIS che rappresenta, per molti compagni di classe di mio figlio, uno strumento necessario e insostituibile per poter dialogare con la propria famiglia, in alcuni casi composto da persone sorde, di una generazione antecedente agli apparecchi che rendono più semplice la vita a suo figlio. Io mi riferivo più a loro, ma non solo a loro. Ma se con questo l’ho offesa, mi dispiace. Avendo provato a imparare la LIS è una esperienza che per molti motivi consiglio a tutti.

Se ha percepito che con le mie parole io volessi “negare”, in qualche modo suo figlio, la sua e la vostra storia, le assicuro che non era nelle intenzioni, conoscendo personalmente altre storie come la sua.

Similmente, spero che lei non voglia negare altre storie che conosco e convenga con me che stiamo esprimendo solo punti di vista. Sfaccettature. Parole e pagine che forse solo combinate insieme possono dar vita a un racconto rotondo.

Sia lei sia io, leggendo affiancati i due testi e usando l’uno come chiave di lettura dell’altro, tendiamo a ridurre una parte dell’esperienza per enfatizzarne l’altra. Nella sua lettera trovo che si tenda a ridurre la rilevanza della numerosità, diffusione e importanza della LIS, della popolazione di sordi segnanti.

Nella mia, il mancato riferimento ai soli sordi segnanti e una mancata digressione sui sordi oralisti ne rappresenta forse un limite. Mentre non pensavo fosse un limite citare il passaggio biblico, del quale mi colpisce una parola: “Effatà! Apriti!” dalla quale ho preso il titolo, so bene che riguarda fatti di duemila anni fa, ma io – e forse questo ci distingue – trovo che siano estremamente attuali, o per meglio dire, parole che aiutano a rendere per me leggibile l’attualità. Con lo spirito di apertura, di ascolto e di accettazione scrivo questa mia risposta, non potendo sfuggire proprio al mio stesso incipit.

Ci unisce la convinzione che la “correzione” sia fortunatamente passata d’uso. Ma, mi sono limitato a riportare l’intero carisma e non ho voluto toglierne delle parti. Riconosco che in ciascun uomo o donna (e forse sarà d’accordo con me) convivono pregi e difetti ma solo l’attualizzazione storica ci può consentire di averne una lettura olistica.

Nell’800 quello che ha fatto San Filippo è stato straordinario, non unico, ma straordinario!

Chi ha la forza di mettersi al servizio degli altri è sempre per me un modello.

Spero ci unirà il piacere di conoscerci personalmente e con questo le auguro una buona giornata.

Andrea Laudadio

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