Lettere

Le lettere alla direttrice

Silvia Giagnoni e Sabrina Bozzoni

Violenza di genere, un punto di partenza… sbagliato: (dis)educare all’uguaglianza

Tempo di lettura 7 min lettura
19 febbraio 2024 Aggiornato alle 19:00

Riceviamo e pubblichiamo questo contenuto per dare voce alla campagna #Unite, a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e “nominarla”.

La Svolta

«La donna è uscita dalla costola dell’uomo, non dai piedi per essere calpestata né dalla testa per essere superiore, ma dal fianco, per essere uguale. Un po’ più basso del braccio per essere protetta, dal lato del cuore per essere amata».

Così si esprime il professore Mauro Gnesato nel video Un piccolo passo per spiegare la parità di genere, video dal titolo quantomeno ambizioso con il chiaro riferimento all’allunaggio. La spiegazione, però, si basa tutta sulla separazione tra i sessi e un’idea di differenza che poteva essere concepibile nella scuola italiana di un secolo fa, ma non nel ventunesimo secolo.

Però siamo a parlarne perché la violenza sulle donne e sui corpi femminilizzati è reale e quotidiana e rappresenta solo la tagliente punta dell’iceberg di una cultura patriarcale le cui ramificazioni profonde stanno emergendo grazie alla forza propulsiva del movimento transfemminista degli ultimi anni.

Noi “scopriamo” il video, accompagnato da commenti entusiasti, perché circola nella chat della quinta elementare frequentata anche da3 nostr3 figli3: è stato mostrato in classe il giorno in cui per circolare ministeriale si chiedeva di riflettere nelle scuole sul tema. E di fare un minuto di silenzio in memoria di Giulia Cecchettin e di tutte le vittime della violenza di genere. Una scelta, quella delle insegnanti, di seguire alla lettera le direttive del Miur, che andava contro quello che la sorella Elena aveva chiesto di fare.

«Non fate un minuto di silenzio per Giulia, ma bruciate tutto ora, serve una sorta di rivoluzione culturale», aveva risposto Elena, parafrasando la poesia dell’attivista peruviana Cristina Torres Càceres, poi diventata virale. Un richiamo il suo a prendersi tutt3 delle responsabilità, inclusa la scuola. Nel minuto di silenzio per Giulia e le troppe vittime di violenza di genere c’è infatti tutta l’ipocrisia del “Potere” nei confronti di un femminicidio che non è un delitto passionale ma espressione di questo “Potere”, patriarcale, mentre noi donne e corpi femminilizzati abbiamo bisogno di un qualcosa di alternativo e diverso: la Potenza femminista, secondo Veronica Gago, ricercatrice argentina e parte del collettivo femminista Ni Una Menos.

Proprio il Governo di Giorgia Meloni, il primo a guida femminile, ha tagliato del 70% i fondi destinati ai centri antiviolenza. La L.168/2023 per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica, approvata sull’onda dell’indignazione pubblica per il caso Cecchettin, va nella direzione dell’inasprimento delle pene, ma il lavoro educativo e culturale che auspica Elena?

Torniamo al video, che si propone di educare al rispetto delle donne, ma le passivizza ulteriormente (anche nell’uso grammaticale della lingua) come oggetto di. Sono i ragazzi, infatti, i futuri uomini, che dovrebbero scrivere alle compagne un biglietto d’amore, mentre il professore darà i fiori a sua moglie: tutti impegnati in un’azione pseudo-rassicurante e consolatoria a fronte dell’ineluttabilità del prossimo femminicidio, fatto di natura, che pare postulato nello script in quella costola primordiale e definitoria.

Ritorniamo al problema culturale, dunque. Il video in questione risale al settembre 2021, con una temporalità resa evidente dalla presenza straniante delle mascherine; è stato patrocinato dal Comune di Sirmione (in provincia di Brescia) e scopriamo che è circolato molto sui social. Confrontatesi sul video scelto per affrontare il tema, le maestre si sono difese con pochi argomenti a parte “il buon cuore”, ribadendo che per loro si trattava di “un punto di partenza”.

Non hanno stimolato una critica sui riferimenti biblici del professore, né tantomeno ci si può aspettare che questa analisi possa arrivare da bambin3 di 10 anni. Il video, insomma, assume una sua autorevolezza nel momento in cui viene mostrato dalle docenti, appunto, in classe.

«State molto attenti a far piangere una donna, perché Dio conta le sue lacrime», esordisce il professore, dopo aver fatto la sua entrata nell’aula accompagnato da una musica stucchevole e aver chiesto a3 ragazz3 (una classe di scuola media) di alzarsi in piedi. Uno script basato sull’equivoco generato dalla nostra lingua che neutrale non è e che per riferirsi a ragazze e ragazzi universalizza il maschile (elemento questo, però, che non viene affatto indagato, una grave carenza per una predica su una questione di genere). «No, scusatemi - prosegue infatti il docente - Mi riferivo solo ai maschi».

La prima risposta è dunque la separazione. Il prof. si rivolge solo a loro. Dividere la classe per il sesso assegnato alla nascita, ignorando sensibilità altre. Questa prima distinzione è pericolosa e fuorviante perché lancia il messaggio che tu, in quanto maschio, hai un problema. È una scelta di campo. Come dire, gli uomini per natura sono violenti, non che esiste un modello dominante di mascolinità tossica che impedisce a sensibilità altre di potersi liberamente esprimere. Un punto di partenza… sbagliato, dunque.

Non c’è (c’era) niente di meglio? Penso al lavoro di associazioni quali Maschile Plurale o alla rete nazionale di associazioni che promuovono una scuola aperta, libera e inclusiva, Educare alle differenze. Ma anche quello di Lorella Zanardo sulle rappresentazioni mediatiche dei corpi femminili nell’era berlusconiana.

Esistono tante insegnanti alfabetizzate alle questioni di genere. Tante, ma non abbastanza e comunque sempre troppo poche. E se le nuove frontiere dell’educazione intendono mettere al centro un’affettività che deve affiancare ogni azione, persino didattica, per cui ogni atto educativo deve essere intriso di emotività, quello che accade nella scuola reale è ben diverso, e racconta una storia colma di quell’inconsapevole eredità machista nemica dell’emancipazione.

Mancano interventi istituzionali incisivi di formazione a riguardo, al di là della retorica di facciata, adesso legata al Pnrr e fortemente schiacciata sul digitale, e che va a finire sotto il termine-ombrello di inclusività (nella piattaforma Scuola Futura sotto “accessibilità e inclusione”). Degli oltre 14.000 percorsi formativi, facendo una ricerca per “genere” ne esiste solo uno che affronta gli stereotipi di genere, per dire. La parola “femminismo” poi continua a essere tabù, o comunque divisiva, come evidenzia l’assenza di percorsi avviati con questo riferimento.

Si prenda il problema della dispersione scolastica, aggravatasi, com’è noto, con la pandemia: secondo i dati su Elel (Early Leavers from Education and Training) di Eurostat, si tratta di un problema (e non solo nel nostro Paese) più maschile che femminile. Perché? E se una delle risposte stesse proprio nell’ambiente scolastico: è un ambiente sicuro e accogliente per ragazz3 che non si conformano a identità di genere strettamente binarie?

Ci scandalizziamo per le incursioni liberticide del governatore della Florida Ron De Sanctis o della popolarità di gruppi come le Moms for Liberty negli Stati Uniti che combattono i curricula che includono la storia afroamericana, le teorie di genere e fomentano teorie creazioniste, ma cosa accade nel frattempo in Italia? Intanto, le ispezioni ministeriali nel centro che si occupa di incongruenza e disforia di genere all’Ospedale di Careggi.

Una società che continua a egemonizzare modi di essere maschio e femmina troppo rigidi ha bisogno di una scuola che richiami la cultura alla sua funzione più alta: l’inclusione per l’avanzamento di tutt3. Forse la soluzione per educare al rispetto reciproco è dare più voce alle bambine e ai bambini, alle ragazze e ai ragazzi, partire dalle loro domande, curiosità, riflessioni. E tutt3 noi farsi travolgere dalla Potenza femminista–dinamica, in fieri, rivoluzionaria.

Silvia Giagnoni (scrittrice), con la collaborazione di Sabrina Bozzoni (giornalista).

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