Diritti

È sempre colpa delle femministe

Il nuovo presidente sudcoreano, Yoon Suk-yeol, ha fatto campagna sul sentimento antifemminista e misogino dei giovani maschi del suo Paese. Non è l’unica parte di questa storia a suonarci familiare
Il presidente sud coreano Yoon Suk-yeol
Il presidente sud coreano Yoon Suk-yeol
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16 marzo 2022 Aggiornato alle 08:00

La Corea del Sud ha un nuovo presidente, si chiama Yoon Suk-yeol e pensa che la colpa del calo delle nascite nel Paese sia da attribuirsi al femminismo, e vuole eliminare il Ministero per le Pari Opportunità. Se vi sembra di averla già sentita è perché in effetti sì, “È colpa delle femministe” sta ai conservatori come “Oh mio Dio!” ai testi di Achille Lauro. C’è chi lo dice chiaro e tondo, come Bolsonaro, Duterte, Putin o i suoi amici italiani della Lega o di Fratelli d’Italia, e c’è chi invece ci costruisce intorno complicate architetture verbali e concettuali che poi finiscono sempre lì, sempre a dare la colpa alle donne che hanno l’ardire di voler vivere, lavorare fuori casa, non fare le serve gratis e non essere trattate come macchine da riproduzione. Gli slogan di Yoon si inseriscono in una lunga tradizione di mosse che funzionano: capitalizzare sul terrore che i femminismi scatenano in chi non li conosce o in chi si sente minacciato dalla possibilità di perdere il proprio privilegio, come moltissimi giovani maschi in Corea del Sud. Anche lì, come sempre succede, essere femminista è garanzia di essere trattata da pazza: anche questa, sono sicura, l’avrete già sentita.

Le fragilità dell’elettorato maschile sono un terreno di coltura perfetto per l’affermarsi di candidati fortemente conservatori, ma la storia di Yoon Suk-yeol a un certo punto diventa ancora più interessante: poco prima di Natale, la campagna di Yoon ha acquisito un nuovo volto, la femminista militante Shin Ji-ye. Dal punto di vista di Yoon, si trattava di un colpaccio: Shin era nota, ammirata e considerata una giovane speranza della politica in un Paese in cui il femminismo è un movimento relativamente giovane, che se la deve vedere con una struttura sociale ancorata a valori antichissimi, in cui le donne sono tenute all’obbedienza. Shin si è unita al comitato elettorale per sostenere la promessa di Yoon di emanare provvedimenti contro la violenza sulle donne. Il tutto è durato meno di due settimane: quando i sondaggi hanno rivelato che l’arrivo di Shin non aveva sortito l’effetto sperato sulle intenzioni di voto delle donne più giovani, Yoon l’ha scaricata senza troppi complimenti con il sostegno del presidente del suo partito, Lee Jun-seok, con cui la giovane femminista si era scontrata più volte in passato. Insomma, è colpa delle femministe se non si facevano più bambini, è colpa delle femministe se ti calano i numeri nei sondaggi, non importa quale sia il problema: un modo per dare la colpa alle femministe si trova.

Il femminismo sudcoreano sopravviverà, ovviamente: se c’è una cosa su cui i femminismi sono forti è proprio non affidarsi a cape carismatiche o leader decisioniste, e la caduta di una donna non pregiudica il lavoro di tutte, che è sempre collettivo e orientato al risultato. Però è interessante vedere come il tentativo di insinuarsi nei ranghi del potere mutandolo dall’interno esponga le femministe al rischio molto concreto di essere usate e buttate via. È difficile da qui capire quale fosse davvero la logica di Shin quando ha deciso di giocarsi la credibilità con una scelta dall’esito così prevedibile, ma il fallimento della singola donna può servire alle altre per affinare la tattica.

La lezione che possiamo trarre da questo episodio – e che anche le femministe nostrane faranno bene a tenere a mente – è che “cambiare le cose dall’interno” è quasi impossibile in presenza di una robusta struttura di potere maschile. Si potranno ottenere piccole cose, forse; vantaggi personali, se non si dà troppo fastidio e ci si presta a fare le portatrici d’acqua; grandi cambiamenti, cambiamenti fondamentali, quelli no. Per quelli, forse, bisogna costruire altre strutture, altri modi di fare politica, avere il coraggio di cercare il consenso al di fuori di lunghe tradizioni a sguardo unico.