Lettere

Io non mi sento colpevole

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24 novembre 2023 Aggiornato alle 11:00

Gentile Direttrice Cristina Sivieri Tagliabue

Mi dispiace ma non ci sto. Sono un maschio, bianco, etero, boomer e non ho nulla di cui chiedere scusa alle donne. A mia moglie, forse, dopo un litigio su questioni di futile, ordinaria amministrazione ma, in generale, mi sono comportato sempre secondo educazione e buone maniere, non ho mai alzato un dito contro il genere femminile. Questo profondersi in scuse e salamelecchi nei confronti della “donna” dopo l’ennesimo caso di omicidio ai danni della stessa lo vivo con insofferenza e lo giudico peloso e astratto. Inconcludente.

Cosa significa sentirsi in colpa per un omicidio commesso da un’altra persona? Quasi tutti guidiamo un mezzo di locomozione. Alcuni bene, alcuni male, altri pessimamente. Forse che ci sentiamo in colpa quando qualcuno che non siamo noi stessi investe un povero cristo sulle strisce o su un marciapiede? Proviamo pena, certo. Compassione, certo.

La sensazione di colpa collettiva, però, è molto pericolosa. Si può applicare a movimenti storici crudeli che hanno coinvolto intere nazioni, come il Nazismo o il Fascismo ma certo non all’omicidio. Continuo a chiamarlo “omicidio” perché già il solo cambiargli nome in “femminicidio” la trovo la peggiore delle discriminazioni ai danni delle donne. Quasi fossero animali in via d’estinzione, specie protette come la foca monaca. No, sono persone come tutti gli altri e la loro uccisione vale come quella di tutti gli altri, cioè moltissimo in una società civile. È inaccettabile.

L’impressione è che ci sia sempre più un furore isterico contro il genere maschile tout court, quando è invece evidente che le malaugurate, sciagurate uccisioni di ragazze e donne sono avvenute tutte o in contesti socialmente ed economicamente degradati o a causa di vere e proprie tare mentali, troppo spesso non rilevate e non rilevabili. L’iniziativa di istituire nelle scuole corsi di educazione sentimentale è lodevole (magari al posto dell’ora di religione cattolica, oramai anacronistica in una società multiculturale), ma la prevenzione vera dovrebbe occuparsi della psiche dei giovani, costantemente sollecitata da modelli social che richiamano violenza, denaro facile, bullismo e sesso come scorciatoia per il successo. Invece di piangersi addosso e incolpare astrattamente il “Patriarcato” (innegabile, storico, culturale) perché non si procede a uno screening psichiatrico sistematico nelle scuole per l’individuazione di quei casi “disagiati” che potrebbero evolvere in comportamenti pericolosi per la società?

Naturalmente, sarebbe troppo impegnativo per il Sistema Sanitario Nazionale, ridotto com’è a chiudere le prenotazioni anche per esami salvavita e quindi veniamo alle responsabilità politiche dei cosiddetti “femminicidi”. Tutti se ne riempiono la bocca, tutti i media si avventano sulla notizia come cani randagi su un osso per spolparlo il più possibile, con interviste, opinioni, ricostruzioni: nulla che porti alla riflessione sulle soluzioni pratiche, solo ricerca di un morboso interesse pubblico. È facile allora prendersela con i “maschi violenti” anche se il 90% di questi non lo sono affatto e non certo al punto di arrivare a sopprimere una vita (almeno nel mondo della cultura occidentale).

La sorpresa (pensa un po’) è che i dati statistici non restituiscono affatto una realtà disastrosa per l’Italia in fatto di omicidi di donne. Su una classifica di 15 Paesi europei (dati di Openpolis), figuriamo al 12° posto alla pari con la Spagna, con lo 0,32 di “femminicidi” ogni 100.000 donne, compiuti in famiglia, da parte di ex o di partner. Davanti a noi civilissimi Paesi come la Francia (0,43), l’Olanda (0,45), persino la Germania (0,53). Al primo posto? La Lettonia dove le donne ammazzate sono 2,43 ogni 100.000.

Un maschio lettone (o tedesco, o olandese, o francese) si dovrebbe forse sentire quindi più colpevole di uno italiano? Secondo me, si dovrà sentire colpevole di “femminicidio” non più di quanto si possa sentire responsabile di un omicidio stradale, o di una rapina in banca, o di una truffa a una vecchietta, semplicemente perché le responsabilità dei reati sono (vivaddio) personali e appartiene interamente a tale sfera. Come ha scritto il collega Lapo Mazza Fontana su Affari Italiani, “Il patriarcato di fondo permea la società umana ab origine, seppure in parziale superamento (almeno nelle epifanie più disgustose), mentre omicidi e femminicidi sono e restano nel 99 percento dei casi una aberrazione prodotta da personalità potenzialmente o concretamente criminali…Le separazioni diventano così dei cataclismi che mandano in tilt non solo le personalità deboli o persino delinquenzialmente borderline, ma anche chi non abbia apparenti o consustanziali disturbi della personalità o scompensi e persino patologie di qualsivoglia spettro, tangenziali o abituali”.

Le azioni possono senza ombra di dubbio essere influenzate da condizioni sociali, familiari, economiche, da discutibili modelli sociali esistenti ma se sfociano in un omicidio volontario e senza motivazioni economiche, non possono che rientrare nel puro ambito psichiatrico del soggetto che le compie. Di questo non posso certo sentirmi colpevole io, maschio bianco, eterosessuale e boomer.

Ivo Mej

Caro Ivo

Benvenuto all’interno de La Svolta, il posto dove le scelte prendono una direzione. Più recentemente, il nostro claim è diventato: il giornale che non polarizza il dibattito. E tuttavia, come puoi immaginare, su certi temi non si transige. Soprattutto dopo una vicenda dolorosa come quella di Giulia Cecchettin e soprattutto dopo aver sentito piazze “polarizzare” tantissimo il dibattito fino a creare schieramenti avversi.

Capisco il tuo punto di vista, e voglio lasciare spazio perché credo che abbiamo bisogno di interpreti come te, della realtà. Tuttavia vorrei puntualizzare una cosa. La responsabilità collettiva è diversa dalla colpevolezza. È un filo che ci unisce e che, anche se non si vede, esiste. La colpa è legata all’inadeguatezza dell’essere umano rispetto ai propri doveri, porta con sé l’idea del dolo.

La responsabilità collettiva è qualcosa di più sottile, che viene prima. È la condizione di chi sa che dovrà rendere conto delle proprie scelte. Ancora una volta, una direzione. Prenderla, e continuare a prenderla, oppure no?