Poche e stereotipate: le donne nella cultura italiana

Pensiamo spesso che quello dellaculturasia un universo a sé, capace diospitare e trasmettere valori più altidelle nostre comuni miserie. Eppure, se guardiamo al mondo delle arti con la lente della parità di genere e della rappresentazione delle donne,le cose non vanno molto megliorispetto a tutti gli altri ambiti. Secondo il primo rapporto annuale sullaparità di genere nel mondo della culturadiffuso il 22 novembre, curato dall’Osservatorio interno al MiC, infatti, “risultarilevante il gender gapnel mondo del cinema e dell’audiovisivo nel nostro Paese”, un gap che si estende anche a tutti gli altri ambiti del settore culturale. Il report, dal titoloLa questione di genere tra immaginario e realtà, è il primo frutto delle ricerche dell’Osservatorio per la parità di generedel MiC, istituito il 24 novembre 2021: è infatti un’analisi del gender gap nei diversi ambiti culturali, ma ha un focus sul cinema e l’audiovisivo grazie al lavoro congiunto della Direzione generale cinema con l’Istat. «Dalla Relazione – ha sottolineato la coordinatrice dell’OsservatorioCeleste Costantino- viene fuori unacondizione di squilibrio generalizzatanei vari ambiti con alcuni dati incontrovertibili: disparità di potere tra uomini e donne, sottorappresentazione femminile nei prodotti culturali e squilibrio nelle retribuzioni tra uomo e donna». Poche, e malpagate Se guardiamo solo al mondo dell’audiovisivo, è evidente fin da un’occhiata superficiale ai dati quanto losquilibrio di generesia radicato e, soprattutto, come sia emanazione (e al contempo replicazione) deglistereotipi di genereapplicati alle professioni. È di 1 a 10, infatti, il rapporto tra le donne e gli uomini nellaregiadei lungometraggi, mentre le donne nella sceneggiatura, nel montaggio e nella produzione sono circa il25%, una percentuale che scende tra il 10 e il 16% per chi sul set si occupano di fotografia, musica ed effetti speciali. Le donne sonoin maggioranza soltanto nel trucco (73%), nella scenografia (58%) e nei costumi (82%). La presenza femminile è più elevata nella direzione di documentari (21%) e cortometraggi (17%) rispetto ai lungometraggi, dove la percentuale di donne non raggiunge neppure la doppia cifra (9%). E se alcune cose si muovono, lo fannotroppo lentamente: “l’analisi del trend dal 2017 al 2021 fa emergere per molti settori una situazione di sostanziale stabilità, per altri (regia, musiche, scenografia, effetti speciali), segnali deboli di una riduzione del gender gap, ma il cammino verso una parità di genere appare ancora lungo”. Poche, e mal rappresentate Se ledonneche lavorano in cinema e tv sono poche e meno pagate dei colleghi uomini, anche quelle che appaiono sugli schermi non godono di un trattamento migliore. Dall’analisi di uno studio commissionato dalla Rai (i cui risultati sono riportati nelreportdiMonitoraggio sulla rappresentazione della figura femminile, sulla capacità di garantire il pluralismo di temi, soggetti e linguaggi e contribuire alla creazione di coesione sociale nella programmazione Rai trasmessa nell’anno solare 2021), emerge unaforte sottorappresentazione delle donnein tutte le tipologie di programmi televisivi: la presenza femminile raggiunge il40% solo nei programmi di intrattenimentoe fiction di produzione Rai mentre, per esempio, si ferma ad appena il 15,8% nei programmi sportivi. Significativa è anche l’assegnazione dei ruoli nei film e nelle fiction: “sono 4 su 10 i ruoli cosiddetti centrali o rilevanti attribuiti alle donne, ma la differenza diventa maggiore per i ruoli di personaggi over 65 quando alle donne viene assegnata solo il 25% delle parti in scena”. Il problema, poi, non è tanto (o meglio, non solo) la sottorappresentazione, ma il tipo stesso di rappresentazione proposta: “la presenza femminile domina, come prevedibile, rispetto agli uomini, all’interno deiruoli femminili tradizionali, legati alla famigliae alla funzione di caregiver (nella “cura della casa” il rapporto è 14.8 contro 85.2). Al contrario le donne continuano invece a essere fortementesottorappresentate in tutta una serie di ruoli professionalinon solo tra quelli stereotipicamente considerati a dominazione maschile (figura ingegneristica, imprenditoriale, etc.), ma anche in ruoli professionali a forte connotazione femminile (figure sanitarie, del mondo della scuola, etc)”. Poche, ancora troppo poche Il focus del rapporto è sul mondo delcinemae dell’audiovisivo, matutto il comparto culturale non brilla per parità di genere. “L’invisibilità delle donne nel mondo dell’arte è infatti una realtà purtroppo evidente”, ammettono laconicamente i redattori del report. I dati non sono recentissimi, ma già lo studioDonne Artiste in Italia. Presenza e rappresentazionedel 2018, aveva mostrato come, nonostante il 66,7% degli iscritti alle accademie di Belle Arti sia donna, appena il 18% delle opere esposte nelle gallerie è stato realizzato da artiste. Un gap artistico di genere che si estende anche alla selezione delle istituzioni museali:meno di 1 mostra su 5riguarda le artiste. E lo stesso vale per le aste e quindi per il mercato. Non solo: “come peraltro accade in molti altri settori, più si sale verso posizioni di vertice, più il soffitto di cristallo si ispessisce e la presenza femminile diminuisce”. Lapresenza maschiledomina anche i settori che tradizionalmente siamo portati ad associare alla femminilità, come ilballetto. Eleonora Abbagnato, ballerina, è l’unico esempio in Italia di direttrice di teatro: sono in maggioranza gli uomini a rappresentare le donne, a plasmarle e a dirigerle. “È evidente che il punto di vista delle donne farà fatica a emergere”. Dal balletto al teatro, aggiunge il report, “purtroppo la situazione non cambia di molto sia per quanto riguarda le direzioni artistiche e i ruoli apicali sia per una concezione del corpo delle donne”. La media nazionale dellapresenza femminile nei principali teatri è del 32,4%: differenziata per ruolo, l’incidenza delle donne è più elevata per le attrici (37,5%) e molto più bassa per le registe (21,6%) e le drammaturghe (20,7%). Stesso discorso vale per lamusica,secondo i dati diffusi da Alessandra Micalizzi, docente di Sociologia dei nuovi media presso ilSAE Institute di Milano: «Non arriva al 3% il numero di donne che produce; le cantanti professioniste sono sotto il 30% rispetto al panorama musicale di oggi; nell’industria discografica c’è spazio per le donne fino a un certo punto e solo in certi ruoli; le autrici di musica e testi, almeno in Italia, sono meno del 10%. E questi numeri non raccontano il panorama di ambiti musicali di nicchia o di secoli addietro. Sono numeri recenti». E quindi? Il report racconta lo stato dell’arte, macome cambiare le cose? Innanzi tutto, spiegano i relatori, “la prima cosa che dovrebbe fare la collettività è non negare più il problema. Troppo spesso la questione di genere viene derubricata, messa da parte o addirittura ridicolizzata”. La soluzione delle quote rosa – che “in alcuni settori ha portato notevoli risultati” – per la cultura non può rappresentare la cura a un problema endemico: è necessario partire dai dati per aprire una riflessione più ampia. Come per ilsettore STEM,anche per quello della cultura, è necessario chele ragazze abbiano dei modelli a cui ispirarsi. Più in generale, “quello che serve – oltre al lavoro indispensabile delle istituzioni governative e culturali – è una rivoluzione culturale che contribuisca a cambiare le distorsioni del pensiero comune. […] Partire dal lavoro nelle scuole, è lì che avviene la formazione e che oltre alla famiglia si diffondono e impongono modelli culturali sbagliati”.