L’infinita odissea dell’ex Ilva (e dei tarantini)
Esattamente quattro anni fa ilNew York Timesparlava dell’Italia come un Paese che ha “la compagnia aerea nazionaleAlitaliaperennemente zoppicante, i progetti di infrastrutture in stallo” e in cui “le banche devono essere salvate”. Poi chiosava con una frase lapidaria su quello che considerava il simbolo dello stallo,l’icona più nitida della gestione della cosa pubblica ‘all’italiana’ -l’Ilva di Taranto- dicendo che “sembra essere troppo grande per fallire e si è guastata troppo per continuare a funzionare”. Tralasciando le tristi e tuttora traballanti sorti della compagnia di bandiera e i riferimenti al ‘soccorso bancario’ o alle infrastrutture in sospeso, e concentrandosi sull’Ilva, bisogna mestamente ammettere che ilNew York Timesoltre a immortalare, profetizzava. L’ex stabilimento siderurgico che un’ordinanza di sequestro del 2012 definiva “impianto che produce malattia e morte anche nei bambini” resta una spaventosa grana. I progetti di rilancio e bonifica del gigante siderurgico italiano,tra i peggiori inquinatori della storia post-rivoluzione industriale, riflettono la situazione in cui è sprofondata la città, semprein bilico tra la tragedia delle rinuncia alla salute o il dramma della disoccupazione, rassegnata al corso ineluttabile della sua maggiore fonte di lavoro e a una politica nazionale e locale non all’altezza. L’ultima conferma del degrado che colpisce la governance di Taranto arriva dal consiglio comunale, ospite, nella serata del 19 dicembre, di una rissa da far west tra Massimiliano Stellato, consigliere comunale e regionale di Italia Viva, e Luigi Abbate, della lista civica “Taranto senza Ilva”. Nel frattempo giunge l’incredibile notizia dell’impossibilità per gli operai della fabbrica di farsi la doccia all’interno dello stabilimentoper mancanza di acqua calda con conseguente consegna ai propri domicili e conviventi di polveri inquinanti, un regalo da mettere sotto l’albero per centinaia di famiglie che si avviano a celebrare l’ennesimo assurdo Natale. «È una questione atavica – denuncia Sante Bruno, componente dell’esecutivo di fabbrica del sindacato Usb, al sitoGreenMe- che non si risolve, anzi peggioraa causa della mancanza di corretta manutenzionee, nel caso specifico della caldaia, dell’assenza dei pezzi di ricambio». Intanto da iniziodicembre funziona solo un altoforno di cinque. Acciaierie d’Italia, ex Ilva, infatti,ha fermato anche l’altoforno 2, uno dei due rimasti operativi, comunicando ai sindacati l’intenzione di riaprire a metà mese. Promessa a tutt’oggi non mantenuta. Ora la palla riguardo le sorti dell’ex Ilva, sempre a metà guado tra chi vuole scrivere la parola ‘fine’ alla storia della fabbrica, e chi spera in un rilancio, passa al governo che, come riporta ilSole 24 Ore,propone tre strade: la nazionalizzazione con la conversione unilaterale del vecchio finanziamento soci diInvitaliain quote di capitale e la salita nella maggioranza diAcciaierie d’Italia; la ricerca sottotraccia di un nuovo partner straniero con cui sostituireArcelor Mittal, il colosso franco-indiano dell’acciaio, azionista di maggioranza (un’operazione tutt’altro che facile perché bisognerebbe reperire un socio capace di affrontare la difficilissima sfida della conservazione del ciclo integrale e della decarbonizzazione ma allo stesso tempo di fare a pugni con il secondo gruppo siderurgico al mondo, ndr); olamessa in liquidazione della società e il suo commissariamento. Il tentativo di trovare nuovi sponsor, mission che si preannuncia impossibile al momento, è l’aggiramento dell’ostacolo Arcelor Mittal che il governo Meloni potrebbe avere in mente di fare. Il gigante franco-indiano farà sapere venerdì 22 dicembrese ha intenzione di effettuare la ricapitalizzazione per la quota che gli spettain quanto azionista di maggioranza, evenienza che fin qui ha sempre scartato. Ma i ferri con i franco-indiani sono corti anche perchél’esecutivo non ha replicato al dossier presentato da Arcelor Mittal nell’ultima assemblea(andata a vuoto), lo scorso 6 dicembre in cui, tra vari punti caldi, la macro-azienda contestava all’Italia dinon aver portato avanti alcuni azioni sulla decarbonizzazione. «Garantiremo ai sindacati che l’ex Ilva non chiuda» è il coro ripetuto dall’esecutivo ma sul come e sul quando, non v’è alcuna certezza. E a giudicare dalle notizie che arrivano da Palazzo Chigi, dove è in corso unfaccia a faccia governo sindacatiproprio mentre scriviamo, lo spazio della speranza in un buon esiste si restringe. Il primo round di incontri tenutosi nella tarda mattinata del 20 dicembre tra i sindacati e l’esecutivo, infatti,è andato malissimo. Le sigle sindacali presenti, totalmente insoddisfatte per la mancanza di proposte, hanno addirittura occupato la Sala verde di Palazzo Chigi. Tra gli operai c’è scoramento e depressione. L’arma dello sciopero, come scriveva Gad Lerner sulFatto Quotidianodel 18 dicembre, è totalmente spuntata perché tra altiforni chiusi e attività bloccate, il lavoro reale in fabbrica è poco, pochissimo e se gli oltre 8.000 impiegati (di fatto – scrive Lerner – dimezzati fra Cig, turni e assenze) incrociassero le braccia, non se ne accorgerebbe nessuno LaFiom-Cgil, in una nota diramata lunedì 18 dicembre,invocava direttamente l’intervento di Giorgia Meloni. “Chiediamo alla Presidente del Consiglio di coordinare i Ministeri interessati per dare una risposta definitiva all’incontro previsto il 20 dicembre a Palazzo Chigicondividendo la salita in maggioranza dello Stato e l’immediata messa in sicurezza delle persone. Il 20 dicembre è una giornata decisiva. Saremo a Palazzo Chigi, non lasceremo l’incontro fino a quando non avremo una risposta chiara: l’assunzione di responsabilità da parte del Governo attraverso la salita in maggioranza”. Per il momento la premier si è limitata a far sapere che a causa di un’influenza, tutti gli impegni, a partire dal 20 dicembre, sono cancellati.