Migranti: l’odissea dei soccorsi in mare

 

Ilsoccorsonon è un’opzione. Lo stabilisce la cosiddetta “legge del mare” che, al di là dei principi etici, trova espressione nelle convenzioni internazionali suldiritto marittimo(Unclos, Sar e Solas) e in Italia nelCodice della navigazione. L’assistenza a unanave in pericolo, recita il nostro regolamento, “è obbligatoria”finché ciò non sottoponga a grave rischio la nave soccorritrice, il suo equipaggio e i suoi passeggeri. E il comandante che abbia notizia del pericolo corso da una nave “è tenuto ad accorrere per prestare assistenza” (articolo 489). Quando la nave in pericolo è incapace di manovrare, poi, il comandante della nave soccorritrice è tenuto a tentarne ilsalvataggioe se ciò non è possibile a mettere in sicurezza le persone che si trovano a bordo (articolo 490). Il supporto normativo, dunque, è rigoroso e incontestabile. Eppure è spesso non considerato quando oggetto delle operazioni di ricerca e soccorso (search and rescue) sono imigrantiche, pur di fuggire da conflitti, torture e miseria, si espongono ai marosi, attraversando ilMare Nostrumcon mezzi di fortuna. Dal 2014 a oggi sono stati oltre23.000 i casi accertati di persone che hannoperso la vita in Mediterraneonel tentativo, quanto meno legittimo, di aspirare a una esistenza dignitosa. E chi si spende per andare loro insoccorsoincontra, oggi più che in passato, difficoltà operative al limite delboicottaggio. Ne abbiamo parlato conNicola Stalla, coordinatore delle operazioni “Search and Rescue” diSOS Mediterranee, associazione umanitaria costituita a Berlino nel 2015, che il grande pubblico probabilmente ricorderà per il teatrino politico che si scatenò nel 2018, quando fu negato lo sbarco in Italia alla loro prima naveAquarius, carica di 629 naufraghi. Recentemente hanno poi fatto discutere i ripetutifermi amministrativiche per cavilli burocratici, hanno costretto in porto la loro seconda nave, laOcean Viking, impedendole di operare per sette mesi. Malgrado ciò dal 2016, l’Ong che raggruppa attivisti italiani, tedeschi, francesi e svizzeri, ha tratto in salvo circa 31.000 persone; in media430 al mese. Le operazioni di soccorso prima del 2018 «Per avere un quadro chiaro della situazione attuale – premette Nicola Stalla – bisogna comprendere quel che accadeva prima del 27 giugno 2018, data in cui è statadichiarata dalgoverno di Tripoli la zona Sar libicafino a quel momento sospesa per la mancanza dei requisiti richiesti dalle Convenzioni internazionali». LaSarè un’area di mare (quella italiana si estende poco più a Sud di Lampedusa) in cui ciascun Paese coordina il soccorso attraverso i relativiMaritime Rescue Coordination Centre(Mrcc), strutture operative che fanno parte di un sistema internazionale, istituito con laConvenzione di Amburgo del 1979(a cui il nostro Paese ha aderito con la Legge 147 del 3 aprile 1989). «Precedentemente all’istituzione della Sar libica – spiega Stalla – le operazioni di soccorso venivano coordinate dal Maritime Rescue Coordination Centre (Mrcc) di Roma che, disponendo di tutti gli strumenti per monitorare il traffico marittimo, diramava l’allerta. In mare c’era un ragguardevole dispiegamento di forze: navi delle associazioni umanitarie, dellaGuardia Costiera italiana, dellaMarina Militare, di altre marine europee, nonché i mezzi diFrontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, che poteva contare anche su droni e aeromobili». Oltre a dirigere le operazioni di salvataggio il nostro Maritime Rescue Coordination Centre organizzava iltrasferimento dei naufraghida una unità all’altra, affinché questi fossero condotti a terra in sicurezza, lasciando il resto dei mezzi dispiegati in mare per altre eventuali operazioni di soccorso. «Se eravamo direttamente noi a intercettare i naufraghi – aggiunge Stalla – ci facevamo carico del loro recupero, dandone contestualmente comunicazione all’Mrcc di Roma che si adoperava senza esitazione a fornire il supporto necessario». Eral’Italia, insomma, a coordinare le operazioni in tutto ilMediterraneo centrale, fino al limite delle acque territoriali libiche. Ma con l’aumentare degli sbarchi nel nostro Paese e il polverone politico che ne seguì, l’Unione europeaavviò una serie di iniziative per far approvare la zona di intervento “esclusivo”, laSar libicaappunto, e passare a loro la patata bollente. Il bluff della Sar libica Nel 2012 l’Italia era già stata condannata dalla Corte Europea per il cosiddettocaso Hirsi,che nel 2009 ebbe come protagoniste 24 persone rimpatriate in Libia da navi italiane, in violazionedell’articolo 3 dellaConvenzione sui diritti umani.Visto che la politica dei respingimenti attuata dall’alloraGoverno Berlusconinon poteva essere perseguita, si trovò la scappatoia di formalizzare la zona Sar libica sotto la supervisione di un fantomatico Centro di coordinamento locale. Furono ritirati tutti i mezzi precedentemente dislocati nel Mediterraneo centrale e fornite allaGuardia Costiera Libica12 motovedette. «Per poter coordinare le operazioni di soccorso – sottolinea Stalla – un Paese dovrebbe quanto meno disporre dei cosiddettiplace of safety,porti sicuriin cui le persone che vi sono condotte non sono più in pericolo di vita. Com’è noto, invece,dalla Libia i disperati continuano a fuggire,proprio perché lì place of safety non ce ne sono». Anche ilMaritime Rescue Coordination Centre di Tripoliè di fatto una struttura fantasma. «Quando avvistiamo deinaufraghiin una situazione di pericolo nellaSar libica– racconta Stalla – procediamo al loro recupero. Come da protocollo, quindi, contattiamo via telefono satellitare il Centro di coordinamento responsabile, ovvero quello di Tripoli, ma nessuno risponde e se lo fa parla solo arabo e non è in grado di fornire alcun supporto alle operazioni». In sostanzal’Mrcc libico si limita a coordinare le operazioni della locale Guardia Costieraimpegnata a dare la caccia a coloro che tentano la fuga via mare per riportarli a terra, contro la loro volontà e in barba ai diritti umani. «E in tutto ciò – aggiunge Stalla –l’Europa perpetua il monitoraggio aereo con i velivoli da ricognizione di Frontexfino al limite delle acque territoriali libiche, fornendo supporto alle operazioni di rimpatrio operate dalle autorità locali. L’allerta non viene mai diramata alle navi in zona, se non in caso di situazioni di pericolo estremo». Unacomplicità, quella diFrontexcon la guardia costiera libica, denunciata da molte Ong e oggi al vaglio dell’antifrode europea. Unoscandaloche il29 aprileha spintoFabrice Leggeri, direttore operativo dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, a rassegnare ledimissioni. Trovare i dispersi? Un rebus Individuarei naufraghiche riescono a superare lo sbarramento libico è diventato estremamente complesso. Un rebus tra le coordinate. Lenavi delle Ongnavigano quasi alla cieca utilizzando radar e binocoli, o seguendo in cielo i movimenti dei velivoli di Frontex per fare rotta laddove si concentrano. In uno scenario di incertezza come questo ha assunto un ruolo chiaveAlarm Phone,una hot-line civile nata nel 2014 su iniziativa di una rete di attivistiche, contattata anche direttamente dai migranti, diffonde allerte su situazioni di emergenza ai Centri di coordinamento Sar, alle organizzazioni umanitarie, ai media, sulle piattaforme social e alle navi delle Ong dislocate in zona, affinché vengano portate a compimento le operazioni di soccorso. Ma è ben altra cosa rispetto al passato. Oggi quando una nave individua un natante alla deriva deve contare esclusivamente sulle proprie forze e per di più confrontarsi colmuro di gomma dei diversi Centri di coordinamento Sar. «Noi dellaOcean Viking– precisa Stalla – portiamo a bordo i naufraghi soccorsi e dopo il diniego del Centro di coordinamento libico e di quello di Malta, ci vediamo costretti adirottare la richiesta su Romache, al termine di immancabilidibattimenti e rimpallidi responsabilità che dilatano in maniera estenuante i tempi delle operazioni, fornisce finalmente indicazione di un porto di sbarco sicuro assegnato dal nostroMinistero dell’Interno». Di fatto, insomma, la salvezza di migliaia di disperati è oggi minata daostacoli burocraticie delegata all’intraprendenza di pochi che, privi di un coordinamento strutturato, non sempre riescono ad avere successo. Caso emblematico quello denunciato proprio daAlarmPhone il 21 aprile del 2021quando circa 130 persone a bordo di un’imbarcazione, furono letteralmenteabbandonate nel Mediterraneocentrale dagli aerei di Frontex che li avevano individuati, dallaGuardia costiera libicache interruppe le ricerche, dalmercantile Brunache transitava a meno di 23 miglia e non intervenne e infine dallaGuardia Costiera italiana, che rifiutò il coordinamento delle operazioni di soccorso fino alla sera del 21 aprile, nonostante fosse stata informata del pericolo diverse ore prima. Il giorno seguente, dopo aver navigato tutta la notte a massima velocità, la naveOcean Viking raggiunse il punto del naufragiorinvenendo solo il relitto dell’imbarcazione ealcuni corpi ormai senza vita.