Così (non) è cambiato l’Egitto
«Sono sempre alla ricerca della libertà. Vorrei tornare in Italia, nella mia università, nella mia città, riprendere i miei studi normalmente. Mi mancano i miei colleghi». È delusoPatrick Zaki, l’attivista e ricercatore egiziano accusato di aver diffuso false notizie ai danni del suo Paese d’origine. Parlaal Festival internazionale del giornalismo di Perugia da remoto, il suo viso è proiettato in mezzo a una parete della Sala dei Notari, ornata di dipinti in ogni angolo. Il suo viso è sorridente, nonostante tutto:ancora non può tornare in Italia. Il 5 aprile si è tenuta laquinta udienzadel processo in corso al tribunale di Mansura, città dove Patrick è nato il 16 giugno del 1991. E per la quinta volta c’è stato un rinvio: Zaki dovrà presentarsi di nuovo davanti ai giudici il 21 giugno, con il rischio dialtri 5 anni di carcereper aver scritto un articolo su alcuni casi di discriminazione in Egitto. Zaki si è collegato per qualche minuto durante il panel intitolato“I dieci anni che non hanno cambiato l’Egitto”insieme alle giornalisteFrancesca Caferri, Laura Cappon e Marina Petrillo. È in bilico da più di due anni, lui, da quando il7 febbraio 2020alcuni militari lo hanno fermato all’aeroporto del Cairo enon gli hanno più mostrato il mondo esterno fino all’8 dicembre, quando è stato scarcerato, senza però il permesso di tornare in Italia: è qui che ha studiato, tra i corridoi e le aule dell’Università di Bologna. Ha frequentato il master Gemma(European master in gender and women studies)che si concentra su temi come lavalorizzazione delle diversitàe il contrasto a ogni tipo di discriminazione. Ha voluto dedicare il suo breve intervento proprio allalibertà d’espressione: «Sono stato in prigione per due anni a causa di un articolo che riguardava le minoranze copte in Egitto. Eppure,sono un privilegiato perché ci sono centinaia di persone come me ancora in prigione. Io avuto il sostegno dell’Italia, dell’Europa: sono stato fortunato a essere rilasciato anche prima del previsto». Zaki fa i nomi di molti colleghi, di giovani giornalisti e attivisti che dividevano con luila cella e i pavimenti sudici primadi Tora, nella periferia del Cairo,poidiMansura. «Dobbiamo lavorare sempre di più sulla libertà di espressione e di stampa non solo in Egitto, ma anche inTunisia, Marocco, Arabia Saudita, Bahrein. Gli ultimi dieci anni, per queste tematiche, sono stati anni davvero orribili», ha commentato Zaki, che l’anno scorso aveva compiuto trent’anni dietro le sbarre, lontano da amici e famiglia. Come spiega Caferri citando i dati delle OngAmnestyeHuman Rights Watch, oggi sono circa60.000 i prigionieri di coscienza nelle carceri egiziane. Dalle proteste dipiazzaTahrir, che diedero vita a uno spazio di libertà d’espressione e divennero il simbolo dellarivoluzionee delleproteste che rovesciarono il governo di Hosni Mubarak, sono passati undici anni. Undici anni in cui la situazione non ha fatto altro che peggiorare. Secondo Marina Petrillo, che è stata senior editor della rete di organizzazioni che lavorano per l’avanzamento dei diritti umani e delle libertà civili in ItaliaOpen Migratione ha scritto il libroCanto la piazza elettrica, su piazza Tahrir, «non si può prescindere dal fatto cheuno degli eserciti più potenti del mondogoverna un Paese di più di 80 milioni di abitantiattraverso il carcere, la censura,l’abolizione della stampa indipendente, gli arresti per un post su Facebook, il ricatto professionale, la continua minaccia». Alla rivoluzione del 2011 gli egiziani avevano creduto veramente ed è stato difficile ricominciare dopo una delusione simile: «Le persone che aspettano tempi migliori sono tante in Egitto, e lo dimostra il breve momento, chenel 2019 costò una repressione e un giro di vite delle carceri durissimo,in cui sembrava che le strade sarebbero tornate a riempirsi», dice Petrillo. Laura Cappon, che nel 2022 ha pubblicato unagraphic noveldal titolo “Patrick Zaki. Una storia egiziana”, ripensa alle rivolte che nel 2011 coinvolsero diversi Paesi e che nel 2019 si diffusero inAlgeria e Sudan: «Se dovessimo mettere un punto adesso, non si salverebbe nessuno: non solo l’Egitto, ma anche laTunisia, per esempio, che sembrava l’unico Paese che stava tentando di andare avanti, pur con mille difficoltà. Però si tratta diprocessi storici molto lunghi, e non si può pensare cheun Paese abituato a stare sotto una dittatura per decenni cambi registro da un giorno all’altro. Servirebbe anche più sostegno internazionale, che finora è completamente mancato». È stata la società civile, invece,a fare passi da gigante nella direzione dei diritti umani e colmare il vuoto lasciato dalla politica: «Se non ci fosse stato il martellamento di Amnesty, per esempio, casi come quello di Giulio Regeni sarebbero stati chiusi, e Patrick Zaki non sarebbe stato preso in considerazione perché cittadino egiziano e non italiano». La fiamma parte sempre dal basso. Accadrà anche in Egitto, di nuovo?