Sostenibilità: ecco perché il piano green “Apple 2030” è in pericolo

 

Ormai da un decennio,Applesta cercando di rendere la sua catena di fornitura globale più ineco-sostenibile. Il Ceo dell’azienda,Tim Cook, ha ribadito in più occasioni che l’attenzione all’ambiente rappresenta unpilastro essenziale del marchio. A conferma di ciò, il lancio del nuovo spot pubblicitario in cui Cook dialoga con Madre Natura (interpretata dall’attrice Olivia Spencer) che lo incalza domandando che cosa stia facendo in concreto l’azienda per garantire il rispetto del Pianeta. Un’operazione di marketing vincente, che permette alla Apple di presentare con non poca fierezza i traguardi “green” raggiunti negli ultimi anni. Nel2020, l’azienda ha dichiarato di aver raggiunto laneutralità carbonicaper le sue operazioni aziendali in tutto il mondo e di aver ridotto le emissioni del 45% rispetto ai livelli del 2015, ottenendo al tempo stesso un aumento dei ricavi del 65%. Ma non finisce qui: la nuova strategiaApple 2030punta ancora più in alto e promette che, a fronte di un ulteriore taglio delle emissioni pari al 75%,entro il 2030 tutti i prodotti Apple avranno un impatto climatico netto zero. In altre parole, entro i prossimi 7 anni l’intera filiera dovrebbe diventarecarbon neutral. Quello diAppleè innegabilmente un progetto ambizioso e in continua evoluzione. E tuttavia non mancano le contraddizioni. Nonostante i toni trionfanti utilizzati da chi definisce quella del gigante della Silicon Valley una“rivoluzione green”senza rivali nel settore tech, è impossibile non accorgersi della presenza di uno scheletro piuttosto ingombrante nell’armadio: lasostenibilità, sul lungo periodo, della sua catena di produzione. Se è indubbio che Apple stia lavorando attivamente da anni per ridurre la sua impronta di carbonio, non è un aspetto secondario che l’effettività della sua supply chain, composta da oltre 400 strutture localizzate in quasi 30 Paesi, sia seriamente minacciata dagli effetti delcambiamento climatico. Comemenzionato da un articolo diBloomberg,che si basa su dati pubblicamente rilasciati dall’azienda,le regioni con la più alta concentrazione di produttori(Asia, India e Giappone) sono allo stesso tempo tra lepiù vulnerabilialla crisi climatica. Molte di queste zone sono destinate a subire disastri naturali più intensi a causa del riscaldamento globale, comealluvioni, ondate di calore, cicloni tropicali.Va da sé che non si tratta di un problema che interessa esclusivamente Apple: altri colossi globali nel settore dell’elettronica comeSamsung e Sonyacquistano da fornitori simili. Resta il fatto che alcuni dati contenuti nelMarsh McLennan Flood Risk Index(riportati sempre daBloomberg)sono piuttosto significativi. Basti pensare che al momento circa il14% della catena di produzione si trova in regioni caratterizzate da un rischio alluvioni categorizzato come “molto alto”.Con un aumento di 3,5 gradi centigradi della temperatura media globale, scenario che secondo le stime dell’Ipcc potrebbe materializzarsi entro la fine di questo secolo, ben il 69% delle strutture sarebbe ad alto rischio. Quello della maggiorevulnerabilitàaglieventi climaticinon è l’unico elemento da prendere in considerazione. La composizione del mix energetico di queste aree costituisce una parte altrettanto importante dell’equazione. Infatti, sebbene in ottemperanza della strategiaApple 2030l’azienda dovrebbe esigere dai suoi fornitori di seguire il proprio percorso verso laneutralità carbonica entro il2030,molti dei Paesi in cui Apple è più presente dipendono in gran parte daicombustibili fossiliper la generazione di energia elettrica, con il carbone che a oggi rappresenta più del 60% del totale in Cina e Indonesia e quasi il 75% in India. Si tratta di una verità molto scomoda, conosciuta agli addetti ai lavori con il nome dicarbon leakage, un fenomeno che spinge la maggior parte delle aziende occidentali (Apple compresa) adelocalizzare le proprie attività in Paesicarbon intensive,caratterizzati per questo da standard ambientali meno rigidi. In queste regioni del Sud Globale non è pertanto difficile immaginare come un tasso di urbanizzazione sempre più elevato e una crescita demografica che appare quasi inarrestabile contribuiranno in misura sempre maggiore a un aumento della domanda di energia e delle emissioni climalteranti, ostacolando così il raggiungimento dei target climatici. Questo quadro delinea una situazione piuttosto paradossale, checomplica radicalmente i piani di Apple di rendere più ecocompatibile la sua rete di produzione:in un mondo sempre più globalizzato e interconnesso, la geografia delle proprie supply chain costringerà l’azienda della mela (e altre multinazionali) a fare i conti con gli stessi effetti del cambiamento climatico che lei stessa sostiene di voler combattere. Se è vero che nessuna azienda può pretendere di essere al 100% resiliente di fronte alle conseguenze diffuse e spesso imprevedibili che derivano dall’operare “nell’era dell’ebollizione globale” (per usare le parole di Antonio Guterres, segretario delle Nazioni Unite) questa storia restituisce la complessità delle sfide, e delle contraddizioni, che molte multinazionali si troveranno ad affrontare nei prossimi decenni, e delle trasformazioni profonde che questi mutamenti renderanno necessarie per evitare danni ingenti all’economia e agli ecosistemi. Nonostante i continui tentativi dell’essere umano di soverchiare la natura e della fallace illusione di poterla controllare, nessuno resterà illeso dagli effetti che la crisi climatica produrrà su di essa: neppure chi, seppur spinto da un opportunismo economico che ben poco ha a che fare con istanze ambientaliste, più si adopera per contenerla.