Il pollice all’insù non è consenso

 

Nell’antica Roma con un pollice rivolto verso il basso (il famoso pollice verso ) si condannava a morte un gladiatore sconfitto in un combattimento nel Colosseo. Nell’arena digitale del web unpollice all’insù(l’ormai egualmente famoso “like”) non vale meno e non segna meno il destino di una persona. Ha fatto scrivere tanto, da questa parte e dall’altra dell’oceano, nei giorni scorsi, la notizia di ungiudice canadeseche ha ritenuto che unimprenditoreche aveva commesso l’imprudenza dirispondere con un pollice all’insù(una delle tante emoji protagoniste della nuova comunicazione via chat) a un acquirente abituale che gli aveva trasmesso un contratto per l’acquisto di diverse tonnellate di lino, avesse con ciòaccettato il contrattocome se lo avesse sottoscritto per adesione. Per carità niente di trascendentale o inedito nella dimensione giuridica giacché da questa parte come dall’altra del mondo basta, talvolta, molto meno per concludere certi contratti; e comunque il giudice in questione nella sua sentenza si preoccupa di chiarire chenon sta naturalmente scrivendo una regola generalené fissando un principio valido per ogni stagione, ma sta decidendo un caso specifico nel quale, tra l’altro, tra i 2 imprenditori c’era una lunga consuetudine di contratti conclusi, eseguiti con poca attenzione alla forma. Ma l’occasione è preziosa per ricordare che alcuni nostrigesti digitaliormai divenuti di uso quotidiano pesano molto di più di quanto suggerisca la semplicità e leggerezza con la quale li compiamo. Proprio ilpollice alzatoche il giudice canadese ha appena considerato un segno convenzionale valido ai fini della conclusione di un contratto, a esempio, da questa parte dell’oceano è stato a più riprese (anche se non in maniera univoca) considerato sufficiente a diffamare o a istigare all’odio razziale. È successo, anche di recente, in Italia, in Svizzera, in Germania e in diversi altri Paesi che utenti che, magari frettolosamente, avevanoalzato il loro pollice digitalesu post o contenuti diffamatori o antisemiti siano stati trascinati in Tribunale econdannati, anche in sede penale, per aver commesso questo o quel reato. E non si tratta di conclusioni peregrine o draconiane perché, in effetti, che ci si pensi o no, che lo si sappia o no, queilike, complici gli algoritmi che governano le piattaforme di social network, spingono i post e i contenuti più lontano di dove sarebbero arrivati naturalmente per mano del solo autore e li propongono alle reti sociali di chi, appunto, tira su il pollice, manifestando adesione al messaggio illecito in questione. Questo, forse, suggerisce un paio diriflessioni.La prima ci riguarda tutti: dobbiamo (non dovremmo) imparare adare più peso a certi gestiche per quanto immateriali hanno ormai acquisito un significato sociale e giuridico univoco e sono entrati a far parte di unnuovo linguaggio globaleche non vale di meno di quello delle parole scritte in questa o quella lingua. Non farlo può costarci caro ma, soprattutto, può offendere, ledere altrui reputazione, discriminare e far male al destinatario di certi simboli o dei contenuti sui quali appiccichiamo certe icone. La seconda ci riguarda egualmente tutti ma, anche e soprattutto, igestori dellepiattaforme.Perché se mettere unlikeè così facile, se lo facciamo con tanta leggerezza, se lo facciamo così spesso e così tanto a cuor leggero non è o, almeno,non è solo perché siamo tutti superficiali, perché andiamo di corsa, perché non ci curiamo abbastanza del peso delle nostre parole e dei simboli che le rappresentano nella nuovakoinéinternazionale ma è il risultato scientificamente perseguito da chi progetta, disegna, sviluppa e gestisce le piattaforme attraverso le quali si consuma la nostra esistenza online. Perché, naturalmente, non sta scritto da nessuna parte che per mettere un like sotto un post debba servire un solo tap sullo schermo del nostro smartphone e non potrebbe esserne utileun secondo per confermare la volontà di tirare per davvero su il pollice.E non sta scritto da nessuna parte neppure che per condividere un contenuto debba bastare un istante e non possano servire 30 secondi, così da offrire all’utente la possibilità di ripensarci. Ma il punto è che più è facile mettere like:più like mettiamo, più i contenuti circolanoe più i contenuti circolano, più utenti ne fruiscono, più aumentano idati personali raccolti dalle grandipiattaformedigitalie più diventano precisi e, quindi, preziosi i profili di consumo che possono poi essere “venduti” agli investitori pubblicitari. Insomma a chi gestisce le piattaforme conviene molto di più che gli utenti alzino il pollice con leggerezza, rapidità e spensieratezza piuttosto che lo facciano con calma, ponderazione e riflessione. Ma è così anche per noi, per la società, per la dieta mediatica del mondo intero, per i mercati e per le democrazie? Forse no e questo è il paradosso del pollice alzato:tanto leggero eppure tanto importante.Bisognerebbe smetterla di sacrificare l’importanza delle parole e dei simboli che le rappresentano sull’altare del profitto di pochi.