Figli di un dio minore: i lavoratori del settore della moda (e non solo)

A distanza di poco più di 10 anni dallatragedia del Rana Plaza, in cui ilcrollo di un palazzo in Bangladesh provocò la morte di 1134 personee il ferimento di oltre 2500 che lavoravano in varie fabbriche tessili, tanti si interrogano sullecondizioni dei lavoratoridi quello che un tempo veniva definito il terzo mondo. Il tema che mi sta a cuore riguarda però non soltanto il profilo della sicurezza, quanto quello delleretribuzionie dei tentativi europei di porre sistemi di controllo che possano assicurare ilrispetto dei diritti umani. Si parla molto dellaSupply Chain Directive(già introdotta in Germania), cheimpone alle grandi imprese di eseguire controlli sull’intera filiera produttiva, anche per quanto concerne le lavorazionieseguire all’estero, nel tentativo di arginare lo sfruttamento deilavoratori, la violazione deidiritti umanie i danni all’ambiente. La normativa impone un sistema di controlli, introducendo responsabilità in capo all’impresa e prevedendo sistemi di whistleblowing che possano facilitare la segnalazione di condotte non corrette. Il punto è capire quale saràil metro sul quale misurare il rispetto dei dirittie quanto saremo ipocriti nel valutarli. Qui ritorno alla tragedia del Rana Plaza: fu casata da un cedimento strutturale di un edificio, che aveva palesato gravi lesioni prima del collasso, ma mentre i lavoratori di alcuni piani costituiti da uffici vennero invitati a non presentarsi al lavoro, gli operai del tessile non furono dispensati. Era il 23 aprile del 2013 e subito dopo sorsero movimenti qualiFashion Revolutionper moralizzare quel mondo del superfluo che spesso coincide con lamoda, cercando di assicurare ambienti di lavoro più sicuri e trattamenti economici dignitosi. Vediamo allora cosa accade oggi e come e se i lavoratori di questa industria hanno visto migliorare le proprie condizioni di vita. Questi sono isalari mensiliin varie parti del modo in base a una rilevazione eseguita nel 2020, i cui valori appaiono ancora attendibili: di fronte a una media di 1160 dollari negli Stati Uniti, abbiamo266 dollari in Malesia, 217 dollari inCina, 63 in Bangladesh. L’Etiopia, spesso decantata come l’economia africana emergente, vede un salario mensile di26 dollari: uno al giorno, meno di quanto un italiano spende per un caffè al banco del bar. “Costa meno di un espresso”, lo slogan spesso utilizzato per invitare a fare la carità, è quanto guadagna un essere umano in una giornata di lavoro. Sebbene i salari non possano essere considerati mai in valori assoluti, ma secondo il loro potere di acquisto, è bene considerare che il reddito pro-capite medio in Etiopia è più elevato (circa 75 dollari mensili). Eppureci sono persone che si assoggettano a tale sfruttamento, se le cronache ci dicono che in Etiopia le donne, che rappresentano la quasi totalità della forza lavoro di tale industria, sono vittime di vari tipi di soprusi a partire da quelli sessuali per ottenere e mantenere tali forme d’impiego. Ed è qui che voglio richiamare l’attenzione:riusciremo mai a moralizzare lo sfruttamento lavorativo?Sarà sufficiente una legge che impone la due diligence sull’intera catena produttiva, quando basta andare a parlare con qualche migrante regolarizzato in Italia che lavora in una stazione di servizio di carburante o in un ristorante, per scoprire che spesso quando sono messi in regola, il contratto di lavoro sottoscritto e per il quale sono pagati prevede 4 ore di lavoro giornaliero mentre nei fatti rimangono 8 o 12 ore al giorno? Mi chiedo quindicome saranno eseguiti effettivamente i controlliin regioni diverse e distanti dalle nostre, se non riusciamo ad assicurare il rispetto dei diritti quando le cose avvengono sotto i nostri occhi. Mi chiedo chi potrà dire nulla se saranno rispettate le leggi locali, quand’anche esse prevedano dei minimi retributivi ridicoli. Il timore è che tale normativa diventi un semplice velo che maschera la perpetuazione dello sfruttamentodelle persone e della natura. Ciò non vuol dire che non vada introdotta o che non sia degna di apprezzamento, il mio è solo uninvito a non abbassare la guardia, a porsi sempre domande, a incentivare una stampa libera e indipendente, non al soldo delle multinazionali e che possa ogni giorno fare sapere cosa effettivamente accade. Un invito a chiedersi perché una maglietta debba essere prodotta in compound lontano da occhi indiscreti inEtiopia, ma anche aPrato; perché vi debbano essere continui sub-appalti che allungano la catena di produzione e mettono una distanza difficilmente colmabile tra chi produce, spesso senza rispetto della dignità umana, e chi applica il marchio che rappresenta lusso ed esclusività, e si autoincensa in nome di unasostenibilità che si risolve molte volte in una mera petizione di principio. Un invito a ricordarsi che non dovrebbero mai esistere figli di un dio minore e a lottare per impedirlo.