Per molti di noiAIsignificameme sul Papa-rapper, l’infinita lista degli “ho chiesto a ChatGPT di…” e l’ennesimo articolo che ci spiega comel’avvento di questi super-bot cambierà il mondoche abbiamo sempre conosciuto. Eppure c’è qualcosa, dietro l’intelligenza artificiale, che somiglia fin troppo al mondo che conosciamo bene:lo sfruttamento dei lavoratoriche rendono possibile “la magia”. Quello che dimentichiamo quando utilizziamo il termine “artificiale” è che i modelli di AI devono essere “addestrati” interagendo con una mole enorme di dati.Dati che devono essere raccolti, ordinati, verificati e formattati. Un lavoro enorme in termini di tempo che, spieganoClément Le Ludec e Maxime Cornetdell’Institut Mines-Télécomdi Parigi, per risparmiare viene “esternalizzato dalle società tecnologiche auna miriade di lavoratori precari, solitamente situati nei Paesi in via di sviluppo”. Quanto vale guardare nell’abisso? In Kenya, 2$, o meno L’inchiesta delTime, a esempio, ha rivelato con crudele ironia chei lavoratori keniani erano pagati meno di 2 dollari l’oraper garantire che i dati utilizzati per “nutrire” ChatGPTnon comportassero contenuti dicarattere discriminatorio. ChatGPT-3, infatti, pur avendo una capacità straordinaria di comporre frasi,produceva spesso osservazioni violente, sessiste e razziste, “perché l’AI era stata addestrata su centinaia di miliardi di parole raschiate da Internet, un vasto archivio di linguaggio umano” pieno di tossicità e pregiudizi. Per arginare questo fenomeno, era necessario fornire all’intelligenza esempi di frasi e termini etichettati come violenza o incitamento all’odio, poiché potesse imparare a riconoscerle. Per ottenere queste etichette, ha spiegato Billy Perrigo sulTime, a partire da novembre 2021OpenAIha inviato decine di migliaia di frammenti di testoa una società di outsourcing in Kenya. “Gran parte di quel testo sembrava essere statoestratto dai recessi più bui di Internet. Alcuni descrivevano con dettagli grafici situazioni come abusi sessuale su minori, bestialità, omicidio, suicidio, tortura, autolesionismo e incesto”. Il partner keniano diOpenAIeraSama, una società con sede a San Francisco che impiega lavoratori in Kenya, Uganda e India per etichettare i dati per i clienti della Silicon Valley (come Google, Meta e Microsoft), che si presenta come “intelligenza artificiale etica” e afferma di aver contribuito afar uscire più di 50.000 persone dalla povertà. Peccato che, secondo ilTime,che ha esaminato centinaia di pagine di documenti interni diSamaeOpenAI, comprese le buste paga dei lavoratori, e ha intervistato 4 dipendenti diSamache hanno lavorato al progetto (rimasti anonimi), gli etichettatori di dati impiegati dalla società di San Francisco per conto di OpenAIhanno ricevuto un compenso tra $ 1,32 e $ 2 all’oraa seconda dell’anzianità e delle prestazioni. Quella dei lavoratori keniani sottopagati per unamansione estremamente provante e spesso fonte di veri e propri traumi psichici, è una storia che permette di aprire una breccia sulle condizioni dei lavoratori in un settore poco conosciuto (e prevedibilmente poco evidenziato) del settore dell’AI, che è però essenziale per rendere i sistemi di intelligenza artificiale sicuri per il grande pubblico. “Nonostante il ruolo fondamentale svolto da questi professionisti dell’arricchimento dei dati,un numero crescente di ricerche rivela le condizioni di lavoro precarieche questi lavoratori devono affrontare”, ha spiegato alTimePartnership on AI, una coalizione di organizzazioni di intelligenza artificiale a cui appartiene OpenAI. “Questo potrebbe essere il risultato degli sforzi per nascondere la dipendenza dell’AI da questa grande forza lavoro quando si celebrano i guadagni di efficienza della tecnologia.Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Intelligenza artificiale, eredità coloniale L’indagine di Le Ludec e Cornet, condotta tra Parigi e la capitale del Madagascar Antanarivo, ha come obiettivosvelare l’identità di questi lavoratori dei dati del settore dell’AI francese,i loro ruoli e le loro condizioni di lavoro, e proporre modi per arricchire le discussioni sulla regolamentazione dei sistemi di intelligenza artificiale. “Da un lato, le aziende tecnologiche francesi si affidano ai servizi Gafam (un termine collettivo che indica le grandi aziende tecnologiche come Alphabet – Google, Amazon, Apple, Meta Platforms e Microsoft,ndr) per accedere ai servizi di hosting dei dati e alla potenza di calcolo – spiegano i ricercatori – Le attività relative ai dati, invece, sono svolte dalavoratori ubicati nelleex colonie francesi, in particolare in Madagascar, a conferma della già vecchia logica in tema di filiere di outsourcing”. I dati di un questionario sottoposto a 296 lavoratori dei dati inMadagascarrivelano che questo settore impiega principalmenteuomini(68%),giovani(l’87% ha meno di 34 anni),urbani e istruiti(il 75% ha completato l’istruzione superiore). Guadagnano per lo più tra i 96 e i 126 euro al mese, con notevoli differenze salariali e compensi fino a 8-10 volte superiori per le posizioni di capo squadra (occupate anche da lavoratori locali). Questi lavoratori, spiegano i ricercatori, si trovano alla fine di una lunga catena di esternalizzazione, il che spiega in parte isalari bassi (anche per il contesto malgascio)di lavoratori qualificati. Queste aziende, spiega l’indagine,approfittano dei legami postcoloniali, beneficiando di un regime specifico: si tratta delle cosiddette “zone franche”, istituite nel 1989 per il settore tessile in Madagascar ma presenti in molti Paesi in via di sviluppo, aree che facilitano l’insediamento degli investitori attraverso esenzioni fiscali e aliquote fiscali molto basse. Gli effetti sono ben visibili:delle 48 società che offrono servizi digitali nelle zone franche, solo 9 sono gestite da malgasci, contro le 26 di proprietà francese. Non solo: “oltre a queste imprese formali – spiegano Le Ludec e Cornet – il settore si è sviluppato attorno a un meccanismo di ‘subappalto a cascata’, con, alla fine della catena, imprese informali e singoli imprenditori, che sono trattati meno bene che nelle imprese formali, e mobilitati nel caso di carenza di manodopera da parte delle aziende del settore”. Per le aziende francesi, questo è un doppio vantaggio:oltre al costo più basso del lavoro, possono contare su personale qualificato,che spesso è andato all’università e parla correttamente francese (imparato a scuola o grazie alle reti dell’Alliance françaises, creata nel 1883 per rafforzare il controllo sulle colonie attraverso l’utilizzo della lingua dei colonizzatori da parte dei colonizzati). Uno schema che ricorda quello che il ricercatore Jan Padios chiama “richiamo coloniale”: le ex colonie hanno competenze linguistiche e vicinanza culturale con i Paesi che comandano, di cui a beneficiare sono le società di servizi.
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