Il pregiudizio del mondo giusto

Il pregiudizio del mondo giusto

 

Ogni volta che leggo la frasese la sono cercatasento sempre lo stesso moto di fastidio a pervadermi. In prima battuta non credo sia mai vero e in seconda, in genere, nonstiamo valutando gli avvenimenti con il giusto grado prospettico. Insomma, citando qualcuno di molto più autorevole di me, io non ho paura del “se la sono cercata” in sé. Ho paura del “se la sono cercata” in me. Mi accorgo di aver paura di introiettare dei pensieriquando si dà la colpa a chi scappa dalla morte, non a chi quella morte contribuisce a farla accadere. Ché la colpa è di chi tenta di salvarsi, mica nostra che mentre ci distraiamo con altro non vediamo o non vogliamo vedere gli accordi che il nostro Paese stringe con l’altra riva del mare. Quel pensiero si insinua un po’ dentroquando è colpa di un vestito, di un drink, di un posto o di un’ora precisa.Quando si difendono iconfinidei ruoli con la finta presunzione del decoro e del rispetto, della famiglia, o della patria. Quando diamo la responsabilità di un destino a chi da quel destino tenta di sottrarsi, mai a chi fa di tutto perché non muti. E mi rendo conto che èfacile farsi attraversareun po’da certi pensieri, è banale addirittura, come tutto il male lo è. Perché è rassicurante pensare che in un mondo giusto se qualcosa di ingiusto capita è per la colpa del singolo, delle circostanze o di entrambe le cose. Ci mette al riparo dal pensiero di cosa faremmo noi se dovessimo attraversare gli stessi avvenimenti. Ilpregiudiziodel mondo giustosi verifica perché i nostri cervelli bramano la prevedibilitàe, per questo,tendiamo a incolpare le vittime dell’ingiustiziapiuttosto che rifiutare la confortante visione del mondo che suggerisce che il bene sarà ricompensato e il male punito. Sappiamo che non succede e allora tentiamo di ripristinare quell’ordine ideale anche a costo di farcelo stare nel nostro cranio soltanto. Non èbullismo, è quella persona a esser sfigata. Non èomofobia, ché certe cose si fanno a casa propria. Non èviolenza di genere, chissà lei che ha fatto per provocare quella reazione. Non èxenofobia, è che la nostra patria è nostra. E loro, loro così irresponsabili. Trovano la morte, era prevedibile. Non devi manifestare, è colpa tua. La violenza può esser giustificata, se quello che cerchi di preservare è l’ordine. Abbiamo bisogno di credere che se facciamo la cosa giusta andrà tutto benee di sentirci in controllo sulle ingiustizie del mondo trovando spiegazioni razionali circa i motivi per cui qualcosa non accadrà a noi. Il problema cognitivo del pregiudizio del mondo giusto però è che sempre nei confini del nostro cranio frasi come quelle precedenti diventano potenti argomentazioni logiche: non essere sfigatə donnaomosessuale disabile se non vuoi essere picchiatə Non vestirti in un certo modo se non vuoi essere stuprata. Non tenere la mano a chi ami se non vuoi essere aggreditə. Non partire su una barca se non vuoi morire. E se fai una di queste cose la colpa sarà tua.Questo ce lo dice una cultura sistemica che agisce con lo strumento delvictim blaming, (ovvero dare la colpa di un sopruso alla vittima, non al colpevole) in cui la colpa di chi subisce rimane una costante sotterranea. Da come guardiamo alle vittime di una qualunque oppressione possiamo sempre dedurre il nostro personale rapporto con il potere.Seci sembra plausibile che la verità stia nel mezzo, sepretendiamo giustificazioni da chi subisce un torto, se ci ripetiamo “aspettiamo prima di giudicare” ma sempre verso le motivazioni di chi quel torto lo compie, ogni volta e in un modo più o meno rilevante,stiamo dicendo che per noi il potere è sinonimo di oppressione. Non un mezzo per sconfiggerla. La parte in cui scegliamo di sederci quando pensiamo a un reato, un delitto, un’ingiustizia di qualunque tipo è sintomatica di come definiamo gerarchicamente colpa e colpevole, con chi sentiamo più affinità, a chi crediamo. E so chequesta consapevolezza è spaventosae preferiremmo non averla ma viene costantemente corroborata dalle narrazioni che subiamo, siano essere giornalistiche, rappresentative, di intrattenimento, di propaganda politica. E ogni tanto, quando si innesta in noi il pilota automatico e non facciamo troppa attenzione nell’usare il pensiero critico possiamo sentirci sedotti da frammenti inconsci di quel “se la sono cercata” che si fanno strada in noi. In fondo, se non voglio incappare in qualche incidente o subire ritorsioni magari non dico la mia in un contesto professionale. Se considerassi bene le conseguenze e ponderassi le mie scelte, saprei che prendere l’auto da un parcheggio isolato alle 22 è pericoloso. Se mi succede qualcosa è perché non ho considerato la gravità della situazione, no? È buon senso. Ma questi pensieri, di nuovo, sono dei piccoli campanelli d’allarme che devono dirci delle cose equeste cose hanno tutte a che fare con la libertà e il privilegio. La libertà personaledi poter compiere delle azioni, in qualunque circostanza, senza costrizioni o impedimentisi chiama privilegio.E il privilegio è qualcosa che dovremmo controllare sempre quando prendiamo in esame una situazione, pena il giudicare secondo parametri personali situazioni che personali non sono. Ho il privilegio di prendere la mia auto in un parcheggio deserto senza che un certo pensiero circa la mia sicurezza personale mi assilli? Sono libera nel fare valutazioni su quale università frequentare o in che settore professionale dirigermi? Ho mai avuto timore nel mostrare affetto verso lə miə partner in pubblico? Sono mai scappata dalla guerra avendo come unico orizzonte di salvezza una barca scassata? Il mio punto di vista su qualsiasi argomento deriva da alcuni fattori: il mio portato esperienziale, i miei pregiudizi, la condizione di privilegio che vivo e la narrazione mediatica a cui sono sottoposta. I dettagli che i media scelgono di evidenziare, a esempio, possono influenzare pesantemente il modo in cui il pubblico ricorda un particolare crimine o avvenimentoe determinare se un episodio di stupro è visto in un modo che sposta il peso della vergogna sulla sopravvissuta o in uno che afferma il libero arbitrio delle donne e delle ragazze e il loro diritto alla sicurezza e alla libertà dalla violenza. Come i media scelgono di inquadrare reati, guerre, crisi e ingiustizie ha conseguenze dirette sul modo in cui la società comprende i fenomeni e non stupisce, di conseguenza, notare quali siano i termini più diffusi di certa propaganda, anche e soprattutto politica. E così imigrantisono costantementedescritti come in salute, palestrati, con lo smartphonee desiderosi di venire qui naturalmente per abusare di ciò che, come Paese, possiamo offrire. Ma guardateli, stanno così bene, che bisogno hanno di venire da noi? E così “se la vanno a cercare” la morte, incapaci di valutare le conseguenze dei loro gesti, colpevoli di volersi salvare dalla distruzione e dalle torture. Se come società riconosciamo che per cultura abbiamo latendenza a incolpare le vittime, cosa che si intensifica quando le persone temono minacce al proprio gruppo o alla società, non significa che questo fenomeno sia immutabile. Abbiamo infatti la possibilità di iniziare a contrastarne gli effetti. Quando utilizziamo un linguaggio che pone l’accento sulle azioni di chi compie un reato togliamo potere al pregiudizio che ci farebbe propendere per il victim blaming, e questo succede perché le parole hanno la facoltà di creare mondi. La comunicazione ha un ruolo centrale nella quotidianità perché attiva la formazione delle idee in un certo modo. Le parole regolano e stimolano i meccanismi mentali (automatici e non) che generano il pensiero e ne permettono lo sviluppo. Possiamo dotarci deglistrumenti per contro-narrare, così come di quelli per valutare criticamente ciò che succede, partendo sempre da una domanda molto semplice: cosa non sto considerando nel mio giudizio?