L’odio online colpisce le giornaliste

Dallo studio dell’International Center for Journalists(Icfj) in collaborazione conStory Killers(progetto investigativo guidato daForbidden Stories) emerge un dato preoccupante: isocialsono spesso utilizzati come spazi per veicolaremessaggi misogini, di odio e diffamatoricontro le giornaliste.Spesso sono proprio loro, rispetto ai colleghi maschi, a essereoggetto di campagne di disinformazione digitale e commenti sessisti,il cui obiettivo è denigrare il loro lavoro e la loro persona. Il report dell’Icfjha pubblicato2 casi studioche presentano le storie diRana AyyubeGhada Oueiss,da anni vittime diattacchi online, molestie, minacce di omicidio e stupro.Per entrambe, secondo i ricercatori, esiste un rischio piuttosto alto che queste intimidazioni e molestie verbalisi trasformino in violenze e aggressionifisiche. Rana Ayyub, giornalista investigativa e opinionista delWashington Post, può essere consideratauna delle giornaliste indiane “più scomode” del Paese,a causa delle sue inchieste riguardo Narendra Modi (esponente delBharatiya Janata Party,partito di destra nazionalista indù). Da anni Ayyub è vittima di campagne diffamatorie coordinate e di quella che il report definisce una“manovra daplaybook”,ovvero una situazione dove Stati autoritari e figure politichearmano la legge contro le giornalisteinsieme a campagne di violenza online mirate. Lo stesso studio dell’Icfjevidenzia la comparsa dicommenti offensivi e persecutorinei confronti di Ayyub anche dopo pochi secondi dalla pubblicazione di un suo post. Stupisce, tuttavia, come riporta unarticolodel 2022 apparso nelCoalition For Women In Journalism,che in questi anni a esser censurati sono stati alcunitweetdella giornalista e non quelli diffamatori e molesti. Per Ayyub, ma anche per tantissime altre sue colleghe,Twitterè il veicolo prescelto da odiatori e sessistie per quanto il fenomeno sia stato già da tempo denunciato, attualmentele azioni contro i troll molestatori sono apparse insufficienti. Non sono solo i social network a essere utilizzati come armi verso le giornaliste,ma anche glispyware.Ghada Oueissgiornalista libanese diAl Jazeera Arabic, nel 2020 è stata oggetto di diffamazioni chel’accusavano di promiscuità e prostituzione.Attraverso lospyware Pegasussono stateestrapolate delle immagini private dal suo cellulare, che successivamente sono state manipolate e distribuite sui social con false narrazioni. Oueiss, scrive ilreport: «Viene regolarmente minacciata di stupro e morte, e calunniata come una prostituta»; e questo per il suo genere, l’età, la fede cristiana e i suoi reportage, specialmente quelli da Gaza e sulla primavera araba. AForbidden StoriesOueiss ha dichiarato: «Forse quello che hanno fatto a Khashoggi sarebbe successo anche me, perché, prima lo hanno attaccato sui social media, e poi lo hanno ucciso». Oueiss, era amica è stimava Khashoggi, e proprio lui, nel 2018, pochi mesi prima del suo omicidio,le aveva consigliato di bloccare e ignorare “l’esercito di mosche”, ossia la rete di account Twitter automatizzati dell’Arabia Saudita, che prendeva di mira sia lei che Khashoggi. La giornalista, al contrario, rispose a questi attacchi tramite unarticolo. Dunque, esattamente come per il caso di Ayyub, questecampagne di odio sono state costruite da “attori di Stati stranieri” per screditare le giornaliste. In altri casi invece le giornaliste sono minacciate e provano a essere silenziate dalle autorità del loro stesso Paese,come, a esempio, sta accadendo in Iran. A confermarlo èReporters Without Borders(RSF)che comunica chedall’inizio delle protestesono state arrestate 16 giornaliste, il numero più alto in un periodo di cinque mesi nella storia della Repubblica islamica. Inun’intervistaalla BBC,Yeganeh Rezaian, ricercatrice delCommittee to Protect Journalists(CPJ), con sede a Washington, ha riferito: «Stiamo assistendo all’arresto di un numero insolito di giornaliste donne perché ciò che ha scatenato le proteste è stata la legge sull‘hijab obbligatorioe la morte di una giovane donna a causa della discriminazione di genere».In Iran le giornaliste sono perciò divenute un bersaglio del regime, non solo per il lavoro che fanno, ma anche in quanto donne. La prima giornalista a essere incarcerata è stataNiloofar Hamedi, e non è un caso:fu la prima, infatti, a denunciare il caso di Jina Mahsa Amini.Il 22 settembre è stata arrestata e condannata per “propaganda antigovernativa e diffusione di notizie false”.