Diritti

Nessuno vuole andare in guerra

A parte chi non ci deve andare e se tutto va bene non sarà mai costretto ad andarci. Fra machisti scemi e intellettuali che cantano le lodi dei morti in guerra, la retorica sulla morte per la Patria serve solo a usare i poveri come carne da cannone
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2 marzo 2022 Aggiornato alle 08:00

Da qualche giorno sta girando sui social una vignetta un po’ grossolana in cui una versione stilizzata de L’origine del mondo di Courbet, il celebre dipinto che ritrae i genitali di una donna, viene giustapposta a un’altrettanto stilizzata “origine delle guerre”, in cui i genitali ritratti sono maschili. È grossolana, appunto, e semplifica un po’ troppo, ma come battuta contiene un piccolo fondo di verità. Non sono ovviamente le creature munite di pene a portare su di sé la colpa di aver lanciato ogni conflitto della storia, ma è impossibile ignorare che le guerre sono intrise di cultura machista. Una cultura che vende al popolo la lotta armata come mezzo per arrivare alla gloria individuale e collettiva, e dipinge la Patria come qualcosa per cui è giusto morire.

Non intendo mettere in discussione la volontà degli ucraini di difendersi da un’aggressione con ogni mezzo necessario, ma mi risulta difficile guardare alla coscrizione forzata di tutti i maschi in grado di imbracciare un’arma (e a quella volontaria di una bella fetta di femmine: la stima è intorno al 17%) senza pensare che non ci sia niente di bello o glorioso nel morire dilaniati da una bomba o schiacciati da un carrarmato. Buona parte delle reclute di questa guerra inattesa moriranno per mano di altre reclute, a loro volta ragazzini inesperti e spaventati. Tutto per soddisfare la voglia di impero di un uomo solo, noto per far esiliare (se non direttamente avvelenare) i suoi oppositori.

Questo dobbiamo tenere a mente: che le maestre elementari col kalashnikov hanno paura, e avrebbero fatto volentieri a meno di partire per non si sa dove imbracciando un fucile che a malapena sanno reggere. Non era il loro lavoro, come non era il lavoro degli sviluppatori software o dei tassisti che vediamo in questo video di reclutamento realizzato dalle forze armate ucraine nel 2014, dopo l’invasione della Crimea da parte di quello stesso Vladimir Putin che ora sta cercando di mangiarsi anche il resto del Paese.

Non è il combattimento di per sé, il problema: ci sono momenti in cui le alternative sono scarse, se non inesistenti. Gli ucraini sono stati aggrediti. L’esercito russo è entrato e ha cominciato a sparare ai civili. Si possono avere tutti i dubbi possibili e immaginabili e legittimi sull’opportunità di inviare armi, ed è giusto discuterne: ma mentre noi ne discutiamo, le maestre elementari vanno al fronte piangendo con il kalashnikov al collo, perché non sanno come altro difendersi e difendere il proprio Paese, e per estensione l’Occidente, minacciato in maniera esplicita dalle mire espansionistiche di un aspirante zar. E mentre le maestre elementari vanno a morire, qua da noi fioriscono gli scemi intrisi di manie di protagonismo che affermano di voler andare a morire con gloria per l’Ucraina. Perché la guerra per loro è un’astrazione, forse pensano di andare a fare una morte gloriosa al rallentatore con sottofondo d’archi in crescendo. O forse non pensano niente, e quello è solo un modo per sbandierare la propria fragilissima virilità.

Del resto, se gli scemi reclamano l’attenzione urlando di voler andare a sparare, sul fronte degli intelligenti non siamo messi molto meglio: “All’epoca dei nostri nonni, un caduto era motivo d’orgoglio in famiglia”, scrive Federico Fubini sul Corriere della Sera, deplorando l’indisponibilità della nostra società a farsi ammazzare in guerra. Allora ok, basta alleanze, basta Ue, basta pace e stabilità, torniamo al caro vecchio spararsi addosso fra vicini di casa, se no perdiamo “la potenza delle armi”. E facciamo finta di non vedere che di guerre, dopo il ’45, non ne abbiamo combattute poche: ma tutte lontane da noi, a distanza di sicurezza.

Sono strascichi di fascismo, molto comuni in questo Paese che con il fascismo ha fatto i conti un po’ a tirar via, e il fascismo è il figlio politico del patriarcato machista fatto tutto di retorica con l’occhietto lucido, di Dulce et decorum est pro patria mori. E pazienza se a morire per la Patria ci vanno i poveri, perché i ricchi hanno da un pezzo messo i figli sui jet privati e li hanno spediti a svernare a distanza di sicurezza. C’è un filo diretto fra questa retorica e i discorsi costernati degli inviati di guerra occidentali che guardano morire gli ucraini, così bianchi, così simili a loro, e si dichiarano attoniti di fronte all’orrore che si è scatenato in paesi “civilizzati”. È la stessa cultura che porta a lasciare i profughi afgani e siriani a morire di freddo nei boschi al confine con la Polonia, la stessa Polonia che ora sta facendo entrare gli ucraini senza fare una piega. Com’è giusto, peraltro: peccato che gli studenti afrodiscendenti in fuga dagli stessi luoghi e per lo stesso motivo abbiano denunciato di essere stati lasciati alla porta. Machismo, razzismo e supremazia bianca si tengono insieme. Non viaggiano mai separati.

La guerra è da sempre il mezzo violento per la risoluzione delle controversie di natura economica e territoriale: controversie che potrebbero essere risolte con il negoziato e il dialogo, se il nostro mondo non fosse interamente basato su divisioni fittizie, confini arbitrari e scarsa disponibilità a condividere le risorse. Se l’idea di un mondo diverso da questo sembra fantasiosa e fricchettona è perché non abbiamo mai davvero provato a cambiare sistema, e chi fa proposte radicali viene ignorato, ridicolizzato o sabotato. Il patriarcato capitalista ci tiene a un guinzaglio molto corto. E non è che chi teorizza o sperimenta vie alternative manchi di coraggio, o di volontà di esporsi. È uscito in questi giorni un comunicato delle femministe russe che ripudia apertamente la guerra lanciata dal governo di Putin, e specifica che se finora le associazioni femministe sono riuscite a sopravvivere è perché sono state ignorate. Uscire allo scoperto con una posizione così radicale e una chiamata all’azione così definita è pericoloso: il femminismo è l’ultimo movimento politico rimasto in un Paese in cui ogni dissenso viene represso. Un comunicato molto chiaro, con un messaggio altrettanto chiaro: “Siamo tante e insieme possiamo fare molto: negli ultimi dieci anni, il movimento femminista ha acquisito un’enorme forza mediatica e culturale. È tempo di trasformarla in potere politico. Siamo l’opposizione alla guerra, al patriarcato, all’autoritarismo e al militarismo. Siamo il futuro che prevarrà”.