Diritti

Nagorno-Karabakh: si muore anche di geopolitica

Sono più di 100.000 le persone armene in fuga dopo l’offensiva militare dell’Azerbaijan. Ci sono Stati che muovono le proprie pedine per ottenere vantaggi; ma anche chi rimane a guardare. A spese dei cittadini
Credit: Celestino Arce Lavin/ZUMA Wire
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6 ottobre 2023 Aggiornato alle 08:16

La fame uccide anche là dove le armi non hanno ancora colpito. Nel vuoto tra proiettili e detenzione, si insinua la paura che scava, senza sosta, restringendo sempre di più il margine di sopravvivenza. Paura e fame. Si sommano alla violenza, un trittico organico che si imprime sulle vite delle persone Armene che sono fuggite dal Nagorno-Karabakh.

Stando alle dichiarazioni di Nazeli Baghdasaryan, segretario stampa del primo ministro armeno, sarebbero circa 100.417 le persone giunte sul territorio dal Nagorno-Karabakh a seguito dell’invasione da parte dell’Azeirbajian che ha rivendicato la zona come propria. 100.000 su una popolazione totale di 120.000 persone.

L’Azeirbajian ha lanciato un’offensiva (l’ennesima) sulla regione contesa, rivendicandola e giustificando l’attacco come una prevenzione anti terroristica atta a ripristinare l’ordine. Un eufemismo tipico, ormai sovrarappresentato nelle azioni di repressione. L’intento azero di isolare e decimare la popolazione armena ha spinto a dichiarare l’allarme genocidio, nella speranza di denunciarlo e prevenirlo.Una preoccupazione confermata da Elchin Amirbayov, il portavoce del presidente azerbagiano secondo cui «un genocidio si potrà verificare qualora le richieste dell’Azeirbajian non vengano soddisfatte».

L’offensiva azera è iniziata nel 2020, forte del supporto di Israele e Turchia. Nel 2022 è stata addirittura chiusa la via del Lachin, creando di fatto un assedio che ha portato i leader dello Stato non riconosciuto a dover negoziare. Ora la Repubblica di Artsakh è stata sciolta e più dell’80% della popolazione del Nagorno-Karabakh è sfollata.

La tragedia umanitaria, l’ennesimo colpo a un gruppo perseguitato da secoli, è incorniciata da interessi geostrategici esterni risoltosi in interferenze dirette o in inaspettati silenzi. Israele, per cominciare, ha nello Stato azero un alleato prezioso, fonte di petrolio, avversario dell’Iran e bacino di vendita di armi. Ma non solo: per Israele il Nagorno-Kabarakh permette di prendere le misure, valutare le conseguenze e le reali implicazioni di una presa, di una conquista assoluta e di un eventuale genocidio. La reazione internazionale sarà determinante, suggerirà a Israele cosa accadrebbe in caso di distruzione effettiva della Palestina.

La Turchia, poi, ha interessi territoriali notevoli, a partire dagli accordi per il corridoio di Zangezur, un collegamento diretto tra Turchia e Azeirbajian che consentirebbe di attivare una rotta commerciale diretta che connetta Cina, Asia Centrale, Medio Oriente, Europa.

Infine, a sorpresa ma non troppo, la Russia. Nonostante l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva lo leghi più all’Armenia, il Cremlino ha deciso di farsi sostenitore del Governo azero comunicandone l’ultimatum invece che offrirsi come mediatore. Mosca nutre un interesse considerevole nel sostituire la guida democratica armena con un Governo filo russo. Una tendenza che sta alternando notevolmente gli equilibri nella regione. Il precedente del Kazakhstan ne è stato triste preludio.

Allo scoppiare delle rivolte popolari del 2022, prima dell’inizio del conflitto in Ucraina, la Russia aveva mobilitato l’esercito in sostegno del Governo filorusso di Tokayev. La fine del Nagorno-Karabakh è stata sancita così, tra interessi e giacimenti fossili che hanno fatto pendere la bilancia finale a favore dello stato più ricco è riconosciuto. Poco importa che abbia agito con mezzi brutali e abbia tentato un genocidio. Conta il peso politico percepito, la potenza riconosciuta. Sulla bilancia i giacimenti azeri pesavano molto di più di qualsiasi principio di diritto. Perché per quanto legalmente l’Azeirbajian potesse di fatto rivendicare il territorio in forza di quella cessione con cui nel 1921 l’Unione Sovietica ne aveva ascritto il perimetro al territorio della Repubblica Socialista Sovietica Azera, gli armeni avevano dalla loro uno statuto di autonomia oltre al diritto, universalmente non rispettato, all’autodeterminazione in quanto popolo.

Il Nagorno-Karabakh ha ricordato, come se ce ne fosse ancora bisogno, che i diritti umani, come pure le questioni di principio passano, sempre in secondo piano di fronte al potere geopolitico del fossile. È ciò rimane vero persino in una società globale sempre più consapevole dei pericoli della crisi climatica derivata dall’attività produttiva antropica, un’attiva basata sull’estrazione e sulla combustione.

Nel mentre, a farne le spese, sono individui e comunità, soggetti singoli e collettivi le cui biografie sono interamente aggredite da interessi anacronistici che quando non sono tutelati sono oculatamente ignorati dalle autorità internazionali. Manca una reale protezione delle persone e dei popoli e l’indipendenza politica, economica.

Ora, sembra che il conflitto sia in corso di risoluzione perché il Paese è stato di fatto svuotato. Chi non è incarcerato o deceduto, è fuggito, esule. Rimangono la paura, la fame e il terrore che non sia l’ultimo spazio in cui la popolazione armena sarà colpita.

Si muore di guerra, di paura, di fame. Ma anche di geopolitica.

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