Ecco perché rileggere “La nuvola di smog” di Calvino oggi

Quando Italo Calvino iniziò a scrivere La nuvola di smog era l’estate del 1958. Un tempo distante rispetto al nostro, e non soltanto per i 65 anni trascorsi nel frattempo: quel decennio, gli anni ‘50 (che lo stesso Calvino definì “una fase di bella èpoque), ha rappresentato per la società italiana un’esplosione di benessere che oggi, nel 2023, è complicato persino immaginare.
L’intenzione di Calvino era scrivere un racconto che fosse soprattutto una fotografia del boom economico, delle persone che lo stavano vivendo, dell’evolversi di una mentalità sociale; dello sforzo (spesso mancato) verso una presa di coscienza necessaria.
Eppure, come succede con i grandi scrittori, il “soggetto fotografico” di Calvino, la società italiana di quel tempo, sconfina, supera in altre parole le barriere temporali: si finisce così, leggendo, di trovarci dentro un ritratto che è anche nostro, della nostra società, che ha conosciuto la recessione economica.
Il protagonista di La nuvola di smog non ha un nome. Come del resto, non ha nome nemmeno la città in cui si è appena trasferito. Lo scenario è quello di un imprecisato centro urbano-industriale, che all’epoca fu identificato come Torino ma che potrebbe ricordare (forse oggi più di prima) una Milano frenetica e asfissiante.
Tutt’attorno a lui, un velo di polvere e sporcizia, di grigiore che si posa sulle case e le cose, e sui volti dei passanti che perdono definizione. “Quelle facciate di case annerite, quei vetri opachi - scriveva Calvino, filtrando con gli occhi del suo protagonista - quei davanzali a cui non ci si poteva appoggiare, quella foschia […] perdeva il suo umido sentore d’intemperie e diventava come una qualità degli oggetti, […] sostanza d’una miseria generale”.
Quasi un’ossessione, la sua, che non gli fa mai perdere di vista quell’aria sporca: una presenza costante, sulle mani e ovunque. Presenza che sembra non infastidire nessun altro: “Ma lei, scusi – provai a chiedergli [al collega d’ufficio, ndr] – non trova, dopo un po’, a stare qui, le mani, è vero, ha visto come ci si sporca?”.
E la risposta è vaga; un “Probabilmente, dottore” che non lo soddisfa, e che rivela l’indifferenza che avvolge la società, come immersa in una nuvola, appunto, che offusca e soffoca ben più dello smog.
C’è, in questo racconto lungo, pubblicato poi nell’autunno del ’58 su Nuovi Argomenti di Moravia, tutto il sentire dell’essere umano moderno verso una natura inesorabilmente in declino: e quindi l’indifferenza in primis, e subito dopo (ma giusto in superficie) un coinvolgimento che non nasce da un interesse autentico, da una reale intenzione, ma da ragioni puramente economiche, egoistiche.
Ce ne accorgiamo seguendo il protagonista nella sua attività di redattore in La Purificazione, periodico incentrato su tematiche ambientali diretto da Cordà, ingegnere illustre e industriale che si dedica alla questione dello smog pur essendo egli stesso, con le imprese da lui avviate, tra le principali cause del problema.
”[…] a esser sinceri - fa dire Calvino al suo protagonista - credevo che fosse tutta una storia messa su tanto per fare, da parlarne strizzando l’occhio, e avevo accettato quel lavoro come un lavoro purchessia”. Insomma, greenwashing nudo e crudo, che sembra a questo punto muoversi di epoca in epoca, come bloccato in un eterno ciclo karmico.
C’è, anche, una palese tendenza al negazionismo climatico che, quando non si fa esplicito, si nasconde dietro il dubbio a ogni costo. « Ma, senta, dottore - chiede Cordà a proposito dei cambiamenti del clima causati dalle radiazioni atomiche - lei a questo pericolo della radioattività ci crede? Sì, insomma, che sia già così grave…”. Ed è un negazionismo che si avvicina alla vergogna: la vergogna di essere tacitamente complici, e quindi co-responsabili di un clima impazzito.
“Il corso normale delle stagioni pareva cambiato, densi cicloni percorrevano l’Europa, l’inizio dell’estate era segnato da giorni carichi d’elettricità, poi da settimane di pioggia, da calori improvvisi e da improvvisi ritorni d’un freddo come di marzo. I giornali escludevano che in questi disordini atmosferici potessero entrare gli effetti delle bombe; solo qualche solitario scienziato pareva lo sostenesse (di cui peraltro era difficile stabilire se dava affidamento) e insieme la voce anonima del popolino, pronta sempre, si sa, a fare un’accozzaglia delle cose più disparate. […] Del tempo adesso si evitava di parlare, o dovendo dire che pioveva o che s’era schiarito s’era presi da una specie di vergogna, come si tacesse qualche nostra oscura responsabilità”.
La visione della nuvola di smog, quella vera però, quasi tangibile, che sorvola “paesi e strade e fiumi”, la visione della nuvola dall’alto di un punto panoramico fuori città è l’unico momento di turbamento, a metà del racconto, capace di scalfire l’impassibilità del protagonista, dell’essere umano medio. Lo smog, una volta percepito come realtà esterna, eliminabile, e non come una qualità intrinseca delle cose, riesce per un minuscolo frangente a schiarire la sua mente annebbiata.
”[…] scrissi che sì, ancora c’era chi viveva fuori della nuvola di smog, […] chi poteva attraversare la nuvola e soffermarcisi proprio nel bel mezzo e uscirne, senza che il minimo soffio di fumo o granello di carbone toccasse la sua persona, turbasse il suo ritmo diverso […] ma quel che importava era tutto ciò che era dentro lo smog, non ciò che ne era fuori: solo immergendosi nel cuore della nuvola, respirando l’aria nebbiosa di queste mattine (già l’inverno cancellava le vie in un’indistinta bruma), si poteva toccare il fondo della verità e forse liberarsi”.
Rileggere La nuvola di smog, oggi, significa riconoscere quanto corti siano i passi che abbiamo fatto, specie sul piano della consapevolezza. Dagli anni ’50 fino al nostro presente, lo sguardo della società verso i cambiamenti climatici è rimasto uguale: distaccato, disinteressato, pronto in un momento a volgersi altrove. Forse alla ricerca esasperante di una bellezza preferibile.
D’altronde, è proprio la bellezza, pura, arcadica, che chiude il racconto. Paesaggi di prati e siepi, e scene di vita campestre che danno respiro all’anima. “Non era molto, ma a me che non cercavo altro che immagini da tenere negli occhi, forse bastava”. Una fuga dalla realtà, insomma, che (ci) dà sollievo, mentre il mondo crolla.

