Storie

Vera Gheno: «Fallire è normale»

La sociolinguista racconta a La Svolta l’importanza di compiere errori, svelando anche i propri. Perché «bisognerebbe smetterla con l’esaltazione della perfezione e del successo a tutti i costi»
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15 settembre 2023 Aggiornato alle 18:00

Intraprendenza e sbagli, piani precisi e percorsi accidentati, piccoli e grandi intoppi sono solo alcuni degli argomenti affrontati al Fuckup Nights, evento di elogio al fallimento che si è tenuto ieri al Base di Milano, dove La Svolta ha avuto l’occasione di intervistare la sociolinguista Vera Gheno.

Nel corso di un “TED al contrario”, organizzato da Montserrat Fernandez Blanco, in compagnia della scrittrice Laura Campiglio e del designer Luigi Ferrauto, l’errore è diventato occasione di dibattito, di una messa a nudo per parlare di nuove scoperte e sbagli che vale la pena raccontare.

Tra gli storyteller d’eccezione, Vera Gheno ha cercato di rompere il tabù del fallimento, la sua colpa identitaria mettendo a nudo, in primis, le proprie esperienze personali.

Sei famosa, iconica e riconosciuta per i tuoi successi ma, per questa volta, ci racconti i tuoi fallimenti: cosa hai imparato dai colpi bassi che la vita ti ha riservato?

Sono famosetta, iconica per alcune persone e riconosciuta, nel bene e nel male. Eppure, la mia vita è piena di passi falsi e fallimenti. Per me è importante condividerli perché voglio che si veda tutta, la fatica di una vita media come la mia. Per scendere più nel particolare, i miei sbagli riguardano 3 aree: lo studio, la professione e l’amore. La mia è stata un’infanzia bilingue e se pensi che la mia seconda lingua è l’ungherese questa storia fa già ridere da sola. Sono sempre stata una ragazza molto brava e, dopo il classico, ho scelto ingegneria per l’ambiente aspirando a diventare una sorta di Greta… La verità è che in un anno sono riuscita a dare solo una materia. Ho cambiato, quindi, facoltà scegliendo lettere, appassionandomi alla sociolinguistica e vincendo una borsa di studio per il dottorato. Ma quella mancata laurea in ingegneria pesa ancora come il mio primo grande fallimento.

A livello professionale c’è poco da dire: sono una precaria a 47 anni e, nonostante i miei 20 anni di esperienza, nonostante sia RTDA (ricercatrice tempo determinato di tipo A); sono precaria perché per avere il posto fisso servirebbe l’abilitazione scientifica nazionale. Abilitazione che ho provato a prendere nel 2018 e nel 2022 ma che mi vede sempre bocciata con 5 no su 5. Vogliamo chiamarlo fallimento? Io vedo una persona che può ancora guardarsi allo specchio, perché è arrivata dove si trova senza aver mai chiesto favori.

A livello relazionale, ancora fallimenti: a 16-17 anni sono andata per la prima volta al consultorio per farmi prescrivere la pillola. Peccato che, durante la visita, il ginecologo mi svergini per sbaglio chiedendomi, subito dopo, se “ero” vergine. Questo evento ha avuto una tale portata nella mia vita che, per molti anni, mi sono sempre ritrovata in situazioni fallimentari fino a quando non ho sposato il primo che capitasse per poi divorziare da lui 7 anni dopo. Il fallimento di questa relazione mi ha portato a capire quali sono le cose importanti che tengono legate le persone. Dai fallimenti ho imparato che c’è sempre un oltre, un altro, e che disperarsi più di tanto non serve a molto.

Le persone vogliono ascoltare le storie di cui nessuno parla o c’è bisogno che qualcuno parli delle storie che le persone non vogliono ascoltare?

Non mi pare che le due opzioni si escludano a vicenda. A volte è bello sentire storie che nessun’altra persona ha mai raccontato, in altri contesti c’è bisogno anche di parlare di ciò che non si vorrebbe ascoltare.

Secondo te, quanto è importante, nell’epoca dell’eccellenza, dell’esaltazione di chi ce la fa, elogiare il fallimento e perché?

Per me molto, perché ci riconnette con una dimensione non solo umana, ma imprescindibile dell’essere umano. Fallire non sarà cool ma è normale. Direi che bisognerebbe smetterla con l’esaltazione della perfezione, del successo a tutti i costi.

Quali sono gli errori che vale la pena raccontare?

Per me tutti, perché solo osservandoli nel loro insieme si può, a mio avviso, aspirare a imparare qualcosa di utile.

Perché, a tuo parere, fallire può diventare l’occasione per fare nuove scoperte?

Secondo me, perché siamo esseri renitenti al cambiamento e, a volte, abbiamo bisogno di un evento traumatico per riuscire a uscire dalla routine alla quale ci siamo adattati. C’è, però, una cosa che va chiarita. I miei ragazzi spesso mi rivelano di sentirsi dei falliti. In qualsiasi ambito, loro si definiscono così. E qui, da sociolinguista, mi permetto di chiarire una cosa. Mia nonna diceva sempre “A tutto c’è una soluzione, eccetto la morte”. Allora arriviamoci vivi alla morte. Se proprio vogliamo identificarci come capaci di compiere degli errori, definiamoci fallenti, capaci di cambiare, con un margine d’azione. Non falliti.

Quanto e quando è importante ampliare il proprio punto di vista accorgendosi di chi non ce la fa?

Essenziale. “Nessun uomo è un’isola”, scriveva John Donne nel ‘600. L’essere umano è relazionale per definizione. Che senso ha salvarsi da soli? Per me, poco.

Riprendendo il tuo libro Parole d’altro genere. Come le scrittrici hanno cambiato il mondo? (Bur Rizzoli, 480 pagine, 18 €), ci sono delle figure del passato, tra quelle che citi, che hanno cambiato il mondo grazie ai propri fallimenti? Ci fai qualche esempio?

Direi che l’antologia è piena di donne che hanno trasformato le limitazioni in sproni. Per esempio, moltissime, tra quelle che ho raccolto nell’antologia, hanno dovuto trovare un modo per studiare eludendo le maglie di una società che le voleva analfabete.

Un accenno al tuo ultimo libro L’antidoto (Longanesi, 224 pagine, 16 €) che hai appena presentato al Festival della letteratura di Mantova: quali sono i comportamenti che avvelenano la nostra vita connessa e quali sono le soluzioni per evitarli?

Nel libro ne elenco 15, sarebbe lungo passarli tutti in rassegna. Ma uno è sicuramente la fretta che ci imponiamo nelle nostre interazioni online, unita a una certa mancanza di consapevolezza e responsabilità nell’uso delle parole… e l’incapacità di tacere quando non si ha nulla di particolarmente intelligente da dire. La prima cosa da fare è, per me, proprio imparare a tacere quando le nostre parole non servono.

Nel tuo podcast Amare parole, parli della lingua e dei suoi cambiamenti a partire da fatti, notizie, dichiarazioni particolarmente rilevanti. Tornando all’elogio del fallimento, quanto è importante riconoscere la differenza tra le parole che descrivono e quelle che esprimono un giudizio?

Enorme, direi. Sarebbe anche lo strumento che ci permetterebbe di non andare dietro a qualsiasi notizia roteando come delle banderuole e passando giornalmente di indignazione in indignazione.

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