Diritti

La chiusura dei manicomi: la storia di Marco Cavallo

Un’opera in cartapesta di colore blu, realizzata nel laboratorio artistico dell’ospedale psichiatrico di Trieste. E che divenne per i pazienti ricoverati simbolo di libertà
Credit: Animazionesociale.it
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8 settembre 2023 Aggiornato alle 14:00

“Noi non sappiamo cosa sia stato Marco Cavallo ma una cosa è certa: per noi ha avuto una profonda importanza. Quando oggi gli ospiti dell’allora ospedale psichiatrico di Trieste si incontrano in città, molti ripensano al periodo in cui costruirono Marco Cavallo come a un momento che segnò un nuovo inizio; un progetto di vita che non aveva niente in comune con l’odiata quotidianità del manicomio, ma che rappresentava piuttosto un legame tra individui in una nuova dimensione”.

Le parole di Franco Basaglia (in Marco Cavallo. Da un ospedale psichiatrico la vera storia che ha cambiato il modo d’essere del teatro e della cura, di Giuliano Scabia) raccontano bene il clima e il contesto in cui nacque quest’opera e cosa rappresenti, ancora oggi. Come ha fatto Marco Cavallo a uscire dal manicomio insieme a chi vi era imprigionato?

La fine dell’istituzione totale della follia : la chiusura dei manicomi

La legge n.36 del 1904, “Disposizione sui manicomi e sugli alienati”, sanciva la chiusura coatta nei manicomi di chiunque venisse ritenuto “pericoloso a sé e a gli altri e di pubblico scandalo”. La legge recitava: “Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi. sono compresi sotto questa denominazione, agli effetti della presente legge, tutti quegli istituti, comunque denominati, nei quali vengono ricoverati alienati di qualunque genere”.

Dopo anni di studi, conferenze e battaglie all’interno delle strutture, si inizia a pensare alla fine dei manicomi per aprire le porte a tutte le persone ingiustamente detenute al loro interno. Un percorso che inizia proprio con la decostruzione dello stigma attorno al tema della salute mentale, per smantellare il pensiero della presunta pericolosità sociale delle persone rinchiuse all’interno delle celle dei manicomi.

Una rivoluzione non solo politica e culturale ma anche semantica: “La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere”, scriveva Franco Basaglia (Che cos’è la Psichiatria).

Il 13 maggio del 1978, dopo anni di battaglie, il Parlamento italiano approvava la cosiddetta Legge Basaglia(dal nome dell’omonimo psichiatra che, nell’agosto del ‘71, ottenne l’incarico di direttore dell’ospedale psichiatrico di Trieste), che imponeva la chiusura dei manicomi e regolamentava il trattamento sanitario obbligatorio (Tso), istituendo i Servizi di Igiene Mentale pubblici. Il manicomio di Trieste fu chiuso l’11 luglio 1980, restituendo dignità e pieni diritti civili alle persone rinchiuse.

La libertà è azzurra: la storia di Marco Cavallo

Marco Cavallo, prima di essere un’opera d’arte, è stato un cavallo nero che portava, all’interno delle mura del manicomio, un carretto con la biancheria e le stoviglie delle persone internate avanti e indietro per i padiglioni.

Giunta la vecchiaia, sarebbe dovuto essere soppresso ma, grazie a una lettera inoltrata alla Provincia di Trieste da parte delle persone ricoverate e da chi lavorava nella struttura manicomiale, rimase in pensione all’interno del manicomio (sostituito con un motocarro).

Tra gennaio e febbraio del 1973, nel mentre, si lavorava (dall’interno) allo smantellamento dei manicomi in Italia. La collaborazione tra personale medico e infermieristico e le persone ricoverate (coordinate da Franco Basaglia) fece nascere dentro al reparto P, ormai vuoto, un laboratorio artistico. Lì, nacque un enorme cavallo di cartapesta, che poi fu portato all’esterno, rompendo i muri del manicomio.

Giuliano Scabia, nel suo libro Marco Cavallo. Da un ospedale psichiatrico la vera storia che ha cambiato il modo di essere del teatro e della cura ha raccontato nel dettaglio le sensazioni legate a quel momento, quando fu attraversata la soglia. Ricorda la folla all’esterno, il corteo di macchine che seguiva l’opera di cartapesta trainata da un camion, le persone, con bandiere e tamburi.

La città di Trieste la ricorda semivuota, le serrande chiuse a comunicare paura e ostilità (nonostante la città fosse tappezzata di volantini che annunciavano l’iniziativa): “è come se il muro che il cavallo ha dovuto rompere per uscire dal manicomio ce lo portassimo addosso”, scriveva Scabia.

L’atto di portare all’esterno un simbolo visibile e rappresentativo dell’umanità che, al tempo, si voleva nascosta ed esiliata dentro le mura dei manicomi, fece la storia: la storia della libertà riconquistata.

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