Diritti

Reati sessuali: una giornata al carcere di Bollate

Nell’istituto della periferia milanese esiste un’Unita di Trattamento Intensificato che, ogni ultimo giovedì del mese, organizza “un’assemblea” con i detenuti. Anche La Svolta ha partecipato: ecco come è andata
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27 settembre 2023 Aggiornato alle 20:00

“I delinquenti sessuali sono alle prese con difficoltà che toccano diverse sfere della loro vita, in modo cronico. Proprio come per altre patologie, l’alcolismo o il diabete per esempio, dove non si ha guarigione, ma remissioni. Il delinquente sessuale non deve mai considerarsi al riparo da una caduta o ricaduta. Deve imparare a gestire la sua patologia sessuale, a migliorare la qualità della sua vita. Dovrà accettare certi handicap e soprattutto stendere il lutto sulla sua onnipotenza”. Jocelyn Aubut, psichiatra dell’Istituto P. Pinel di Montreal

«La prima volta che sono entrato in cella e ho trovato fra i documenti questo scritto, ho imprecato, non credevo potesse parlare di me, rivolgersi a me e ancora oggi queste parole le trovo pesanti come macigni, non mi rappresentano». Queste le parole di D. dopo che il professor Paolo Giulini ha chiesto ai presenti di commentare, a distanza di tempo, il percorso intrapreso e le parole del dottor Aubut: il testo rappresenta il manifesto del programma su cui gli autori di reati sessuali sono invitati a confrontarsi, riflettere e lavorare.

Gli fa eco A. «Anche io ho ritenuto quanto impresso su quel foglio inadeguato, veniamo descritti come degli ammalati, ma io ammalato non mi sento, ho preso atto di avere solo una sessualità diversa, adesso però riesco meglio a comprendere che il mio essere diverso non deve ledere i diritti di altri».

«Per quanto mi riguarda, a distanza di 6 mesi dall’inizio di questo percorso, ho capito grazie anche a tutto ciò che sto facendo la mia vera natura, io sono proprio quello, è stata una scossa, un punto zero da cui poter ripartire, ho preso finalmente coscienza del male che ho causato», commenta R.

Siamo all’interno della casa di reclusione di Bollate, nella periferia milanese, in un penitenziario di nuova concezione rispetto agli altri presenti sul nostro territorio. Quello osservato è decisamente un approccio più aperto allo sconto della pena. Le stanze di detenzione lasciano liberi i loro occupanti (circa 1.200 tra cui 120 donne) dalle 8:00 alle 20:00.

Le celle possono essere singole o con massimo 3 letti, dotate di un fornellino da campo, dando così la possibilità a chi lo desidera di cucinare. Al loro interno anche un televisore e murales colorati realizzati sulle pareti. Piano piano, è possibile per i detenuti fruire di un’ulteriore libertà di movimento, aderendo alle offerte lavorative, formative e culturali proposte.

In questo contesto si inserisce uno dei progetti promossi dal Cipm di Milano, iniziato in via sperimentale nel 2005. Questo primo tentativo di trattamento e presa in carico di autori di reati sessuali già imputati ha previsto la costituzione di un’Unita di Trattamento Intensificato - Uti. Questa soluzione è stata ritenuta una valida alternativa alla detenzione in reparti protetti: un antidoto alla solitudine fisica e relazionale, che a volte non permette un recupero completo dell’individuo e della sua sfera emotiva. Il trattamento cerca di offrire all’autore la possibilità di comprendere, ridefinire e quindi modificare, i termini della propria esistenza, concedendo la possibilità di rielaborare il reato commesso.

Le attività dei gruppi comprendono sessioni di arte terapia, attività motoria, educazione sessuale, comunicazione e abilità sociali, gestione dello stress, yoga e meditazione, attivazione di competenze lavorative e prevenzione della recidiva. L’ultimo giovedì del mese all’interno del progetto Uti viene effettuato un incontro definito “assemblea”, in cui i 2 gruppi di lavoro costituiti si uniscono, dando la possibilità, su richiesta, all’accesso di altri detenuti provenienti da reparti diversi. Questo incontro rappresenta l’unica possibilità, anche per i non addetti, di poter assistere alla seduta, seppure indirettamente e sempre sotto l’attenta supervisione dell’equipe che la modera.

I detenuti sono abituati agli osservatori, mentre noi esterni (oltre a me, anche uno psicologo) rimaniamo un po’ sorpresi dalla domanda che ci viene rivolta da uno di loro: «Che aspettative avevate prima di incontrarci, cosa ne pensate di quello a cui state assistendo?».

Per quanto mi riguarda, credo di aver risposto onestamente e senza riflettere: non si hanno aspettative di fronte a queste situazioni anzi, forse qualche inevitabile pregiudizio che si è dissipato velocemente, constatando quanto sia efficace il lavoro che tutti quanti stanno facendo. Ci sono una trentina di uomini fra i 35/50 anni disposti a mettersi in gioco, operare con determinazione su loro stessi, per la comprensione e l’espiazione di quanto accaduto.

È plausibile chiedersi che volto possa avere la violenza? In realtà i visi incontrati sono apparsi distesi, gentili sorridenti, rassicuranti, quello che può avere un amico, un vicino di casa, un nonno. Persone insospettabili insomma, che alla fine cercano il loro riscatto. La sala in cui avviene l’assemblea è spaziosa, colorata, luminosa; se non fossero ben visibili robuste grate alle finestre, potrebbe trattarsi di un qualsiasi circolo ricreativo. Poco importa se per raggiungerla abbiamo dovuto camminare a lungo, addentrarci in lunghissimi corridoi con l’inevitabile incontro di svariati posti di controllo, dove la vista dalle finestre non corre all’infinito, ma si arena sugli imponenti muri perimetrali.

La claustrofobia legata al rumore delle porte che si chiudono al passaggio privando del senso stesso della vita, della libertà, è la sensazione più forte avvertita. La riunione procede; all’ordine del giorno: l’esigenza di una migliore ridefinizione degli spazi comuni e di una maggiore privacy. I detenuti del piano si lamentano delle intrusioni da parte di altri carcerati nella sala ricreativa, soprattutto quando impegnati nei gruppi di lavoro. Non ritengono opportuno che altri, in attesa di entrare nelle partite di Burraco, ascoltino nel frattempo i contenuti, spesso riservati e delicati, delle loro conversazioni.

La convivenza è sempre piuttosto difficile ovunque, ma quando questo labile limite fra 2 o più persone viene esasperato da condizioni di costrizione estrema, come quelle vissute in un carcere, rabbia e frustrazione possono per i motivi più futili far degenerare la situazione e prendere il sopravvento. Un gruppo di detenuti ritiene utile affiggere un cartello chiedendo semplicemente più rispetto. Altri invece, estremamente intransigenti, sono favorevoli a un regolamento interno che preveda norme severe e inappellabili. Si passa democraticamente a una votazione per alzata di mano.

Tutto ciò suggerisce che anche affrontare argomenti ordinari, dalla gestione degli spazi comuni, dell’utilizzo del telefono, fino ai turni per la pulizia del forno, sia un modo indiretto per potersi confrontare, capire e analizzare a fondo. Ci sono autori che hanno indubbiamente ancora qualche difficoltà nell’accettare la Legge; altri invece risultano più indulgenti disposti a giustificare i loro compagni come probabilmente le loro condotte.

I componenti dell’equipe prendono nota e ogni tanto intervengono, stimolando con domande e riflessioni; fra loro è presente anche Sergio, il preparatore atletico. Disciplinare il corpo vuol dire disciplinare la mente: per questo l’attività fisica all’interno di un penitenziario è tanto importante. Verso di lui l’atteggiamento sembra essere più spontaneo, meno ingessato, nonostante nel gruppo ci si debba rivolgere all’altro dando del “Lei”.

Alcuni sono entrati da diverso tempo (devono scontare pene fino a 6 anni di reclusione), altri invece come S. sono prossimi alla riconquista della libertà; sono proprio loro a essere preoccupati per come il mondo, quello vero, quello fuori dalle barriere, potrà di nuovo accoglierli. Tristezza anche per gli amici che rimarranno: in questo microcosmo dove tutto risulta amplificato, anche le relazioni assumono contorni più drammatici.

Il detenuto che ho seduto accanto mi avvicina il libro che ha in mano, probabilmente raccolto dalla piccola libreria nell’angolo: L’uomo e il cane, di Carlo Cassola. Non riesco a capire il suo gesto. Mentre me lo porge sussurra: «Così puoi appoggiarti e scrivere meglio». Lui, L., appare fra tutti quello che ha il peso maggiore delle colpe da sostenere: inizia a piangere mostrando segni di un sentito pentimento. La sua storia è molto complessa: diverse recidive e una latitanza.

I presenti sono tutti piuttosto educati e con un grado di cultura decisamente elevato; d’altronde questo tipo di reato è trasversale e può essere individuato in ogni strato della popolazione. Numericamente, ci sono più italiani, che sono poi anche i più attivi; pochi e silenziosi gli stranieri. L’assemblea viene sciolta alle 17:30; gli operatori commentano l’elevata intensità emotiva dell’incontro. L’uscita dal carcere avviene silenziosamente e con la stessa complessità dell’entrata.

Ognuno di noi avrà modo di riflettere ancora una volta sulle infinite possibilità che può offrire la vita, anche quando sembra persa, in inutili deviazioni; o quando, come in questo caso, devi pagare un prezzo alla giustizia, che non sarà mai così elevato quanto quello che dovrai pagare a te stesso e alla tua vittima.

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