Economia

Auto elettriche: Tata Group sceglie la Gran Bretagna

La società indiana costruirà una fabbrica per la produzione di batterie nella contea del Somerset, con un investimento di 4 miliardi di sterline. L’obiettivo è produrre il 40% della domanda del Regno Unito
Credit: via autocar.co.uk
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26 luglio 2023 Aggiornato alle 07:00

L’abbiamo vista sfrecciare fra le pagine disegnate da Angela e Luciana Giussani, guidata da uno spericolato Diabolik in fuga dalla polizia. Ma adesso la Jaguar, e più precisamente il gruppo industriale indiano Tata, che la possiede nel suo ricchissimo elenco di marchi, potrebbe diventare fra i principali attori europei della transizione energetica automobilistica.

Il conglomerato ha infatti annunciato la costruzione di una enorme fabbrica di batterie per auto elettriche in Gran Bretagna, più precisamente nella contea del Somerset. Un progetto ambizioso che punta a produrre il 40% della domanda attesa di batterie dei produttori automobilistici del Regno Unito. Parliamo di circa 40 gigawattora di batterie all’anno, sufficienti ad alimentare centinaia di migliaia di vetture, oltre a rappresentare una potente risorsa per il mercato del lavoro britannico, con ben 4.000 nuovi posti di lavoro.

Un’occasione d’oro per il settore automobilistico, che presto dovrà convertire il suo core business bloccando, progressivamente, la produzione e la vendita di veicoli a benzina e a diesel, con il rischio di lasciare a casa migliaia di lavoratori.

Il progetto complessivamente richiede investimenti per 4 miliardi di sterline, un impegno sicuramente ben accolto dal premier inglese Rishi Sunak, che legge l’intenzione di Tata Group come un «voto di fiducia nell’economia del Regno Unito». L’occasione di poter trasformare il suo Paese in un anello cruciale della catena di approvvigionamento delle batterie avrebbe perfino spinto l’inquilino di Downing Street a mettere sul tavolo un finanziamento governativo da 500 milioni di sterline.

Il condizionale è d’obbligo dato che il diretto interessato non si è ancora esposto per via della «sensibilità commerciale» del progetto, ma un funzionario coinvolto nell’accordo avrebbe già dato alla stampa le cifre probabili a cui ammonterebbe il sostegno statale.

Eppure si tratta di una cifra estremamente importante per la stabilità del Governo britannico, sempre più traballante in vista delle elezioni suppletive avute luogo proprio nel Somerset. Soprattutto dopo i 100 milioni di sterline andati in fumo per Britishvolt, startup gigafactory nata con lo stesso obiettivo di traghettare l’industria automobilistica britannica nell’elettrico ma andata in fallimento.

Non è la prima volta che il colosso indiano si interfaccia con il Governo inglese. Sul tavolo delle trattative è presente infatti il dossier riguardante le acciaierie a Port Talbot (nel Galles meridionale) e a Scunthorpe (nella contea del Lincolnshire) su cui Tata vorrebbe mettere le mani per rendere la produzione a emissioni zero. Un altro ambizioso progetto da più di 2 miliardi di sterline, ma che l’esecutivo di Sunak sarebbe pronto a sostenere anche attraverso colloqui «attualmente in corso» con le 2 società siderurgiche.

Questa volta la posta in gioco è più alta e la Gran Bretagna si candida diventare il vero palcoscenico della transizione ecologica con ben 2 mega impianti: quello di Tata e un altro nel Sunderland di proprietà della società cinese Envision, attiva nella produzione di dispositivi per le fonti rinnovabili con collaborazioni strategiche con Renault, Nissan e Honda, e che prevede di espandere il proprio sito per arrivare a produrre fino a 38 GWh di batterie.

Il sindacato inglese Unite dal canto suo ha accolto favorevolmente l’investimento, anche se chiede che l’accordo si poggi su una strategia industriale a lungo termine: «Come parte di una strategia industriale globale, il Governo deve garantire che la gigafactory sia costruita con l’acciaio del Regno Unito», ha commentato il segretario generale Sharon Gharam, per cui agli impegni dello Stato verso la transizione industriale deve essere accompagnato un intervento politico per una «riforma dei costi aziendali dell’energia altissimi che si stanno rivelando un serio rischio per il futuro della produzione nel Regno Unito».

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