Diritti

Cosa sono i luoghi di lavoro “menopause friendly”?

Un nuovo movimento nato nel Regno Unito punta a creare uffici favorevoli alla menopausa. Una pratica che si sta diffondendo anche negli Usa, attraverso orari flessibili, ventilatori da tavolo e uniformi modificate
Credit: Anastasia Shuraeva
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
24 maggio 2023 Aggiornato alle 11:00

Fino a non molto tempo fa, discutere dei sintomi della menopausa era un tabù. Ma molte donne, durante il periodo che coincide con la fine del ciclo mestruale e della vita riproduttiva femminile, hanno a che fare con vampate di calore, stanchezza, nebbia cerebrale, sbalzi d’umore, e molto altro. E tutto questo si presenta senza preavviso, nella quotidianità, anche sul posto di lavoro. Per questo, nel Regno Unito, dove le donne in menopausa rappresentano un gruppo demografico in rapida crescita, sta prendendo piede un nuovo movimento che vuole creare luoghi di lavoro “menopause friendly, che potremmo tradurre con “a misura di menopausa”.

Si stima che i sintomi del passaggio alla menopausa siano 34, e spesso si presentino quando le donne stanno raggiungendo gradi più alti al lavoro, cosa che può alimentare ulteriormente l’ageismo e il sessismo già presenti in molti contesti lavorativi.

Più di 50 organizzazioni britanniche, tra cui la squadra di calcio West Ham United, hanno ottenuto questa certificazione da Henpicked: Menopause in the Workplace, una società britannica di formazione professionale. Il Parlamento di Londra sta chiedendo che le politiche adottate da queste realtà si diffondano ancora di più. Un recente sondaggio ha stimato che 3 luoghi di lavoro su 10 in Uk hanno una qualche politica dedicata alla menopausa.

Il New York Times racconta che l’adozione di buone pratiche, dalla formazione sui sintomi e gli orari più flessibili, al dotare gli uffici di ventilatori da tavolo e le dipendenti di uniformi modificate, si sta diffondendo anche nelle aziende statunitensi. All’inizio dell’anno il sindaco di New York, Eric Adams, ha promesso di “creare luoghi di lavoro più favorevoli alla menopausa per i nostri lavoratori attraverso il miglioramento delle politiche e dei nostri edifici”.

Negli Stati Uniti lo studio condotto dalla Mayo Clinic su circa 4.000 donne tra i 45 e i 60 anni ha rivelato che la menopausa costa alle americane circa 1,8 miliardi di dollari in ore di lavoro perse all’anno. Circa il 15% delle intervistate ha detto di aver perso il posto o di aver ridotto le ore di lavoro a causa dei sintomi associati a questo periodo. Così come nel Regno Unito i ricercatori della University of Southampton hanno analizzato i dati di uno studio su oltre 3.000 donne e hanno scoperto che coloro che riportavano almeno un sintomo della menopausa all’età di 50 anni avevano il 43% di probabilità in più di lasciare il lavoro all’età di 55 anni. Queste cifre sono solo una delle ragioni della diffusione delle buone pratiche in Uk e in Usa.

Le celebrità ne parlano sempre più spesso (Oprah chiama la menopausa “The great M”), le donne della generazione X, rispetto alle precedenti, sono più disposte a parlarne e a chiedere supporto. E i datori di lavoro stanno capendo che offrire aiuto è un modo per trattenere le lavoratrici esperte. Si va dal fornire informazioni per ridurre lo stigma sui siti web aziendali e formando personale e dirigenti, al procurare ai dipendenti l’accesso alle cure. Oppure, dotare gli uffici di ventilatori da scrivania e rendere le uniformi in grado di favorire la traspirazione, o ancora dare turni di lavoro più flessibili e possibilità di lavorare da casa.

Anche in Italia alcune aziende hanno diffuso nuove policy dedicate anche alle donne che attraversano la menopausa: lo ha fatto Kellogg Italia, dando loro la possibilità di accedere ad assistenza e consulenza specializzata, a spazi dedicati, come la wellbeing room, e godere di una maggiore flessibilità lavorativa. Ma si tratta di politiche ancora poco diffuse nel nostro Paese. Quando toccherà a noi?

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