Ambiente

Giornata biodiversità: perché dobbiamo investire nella natura?

Oggi è l‘International Day for Biological Diversity, un’occasione per ricordare quanto è importante proteggere i nostri ecosistemi: per sopravvivere, ma anche per avere un sistema economico produttivo
Credit: bd.com

Panama è un Paese dell’America centrale, stretto tra il Costa Rica e quel lembo di terra, noto come Darien Gap, considerato oggi uno dei luoghi più impenetrabili, pericolosi e selvaggi al mondo. Caratterizzato da un’economia forte e da una cultura tradizionale che tenta di resistere a una rincorsa spasmodica alla modernità, Panama è conosciuta nel mondo per essere un paradiso fiscale e per l’omonimo canale.

A guardarlo dal vivo, mentre le paratie si aprono e l’acqua accompagna delicatamente navi cargo così grandi da poter trasportare fino a 13.000 container, il Canale regala agli occhi dei curiosi un esempio lampante di quello che la mente umana ha potuto concepire e del limite entro il quale non ha mai saputo mantenersi nel suo rapporto di convivenza con la natura.

Stiamo perdendo i pezzi di un grande puzzle

Ogni anno, a partire dal 2000, il 22 maggio si celebra la Giornata mondiale della biodiversità, definita come la varietà e l’abbondanza della vita sulla Terra e che può essere analizzata su 3 livelli: specie, geni, ecosistemi.

La biodiversità è un intricato insieme di relazioni che si sono evolute e perfezionate nel corso di milioni di anni. Se potessimo raffigurarla su un foglio di carta, assomiglierebbe a un enorme puzzle in cui ogni pezzo, se lasciato al suo posto, ricopre un ruolo fondamentale per il mantenimento di un sistema in perfetto equilibrio.

Il problema è che, negli ultimi decenni, quel piccolo organismo che rappresenta solo lo 0,01% delle specie che vive sul Pianeta (e a cui noi tutti apparteniamo) si è dimenticato di ripassare il libretto di istruzioni della vita e, con le sue azioni, ha innescato una serie di sconvolgimenti che hanno dato il via a una vera e propria sesta estinzione di massa.

In soli 300.000 anni, l’Homo sapiens ha causato l’estinzione dell’83% dei mammiferi selvatici della Terra e di circa metà delle piante conosciute. Secondo la Lista Rossa stilata dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, ossia la fonte di informazioni più completa al mondo relativamente allo stato e al rischio di estinzione delle specie animali, fungine e vegetali, di 150.388 specie catalogate, ben 42.108 sono a rischio di estinzione.

Ma il baratro non sta risucchiando solo le specie ma interi ecosistemi tanto che negli ultimi 10 anni abbiamo perso, a titolo di esempio, ben il 14% delle barriere coralline e c’è il serio pericolo che foreste e oceani tropicali possano collassare già nel 2040.

Un paio di anni fa, leggendo uno scritto di Gordon Sayre, professore alla University of Oregon, ho trovato lampante questa metafora: se convertissimo in bit le informazioni genetiche racchiuse nei cromosomi di 20 creature selezionate casualmente, potremmo riempire circa 400.000 manoscritti, un numero pari a quelli contenuti nella mitica Biblioteca di Alessandria andata a fuoco nel 48 a.C, provocando la perdita di un patrimonio storico e culturale immenso. Ora, se consideriamo che, secondo svariati studi scientifici, il numero di specie che si estinguono oggi a causa delle attività umane è pari a circa 200 al giorno, quello che stiamo provocando è un incendio di portata così grande da coinvolgere circa 10 biblioteche alessandrine e fa di noi dei piromani senza speranza.

Ecco perché il tema scelto per quest’anno dalle Nazioni Unite suona come un campanello d’allarme che chiama a raccolta l’intera umanità: Dall’accordo all’azione: ripristinare la biodiversità, a voler sottolineare l’importanza delle azioni individuali e del rispetto, da parte della comunità internazionale, degli impegni assunti con l’approvazione, a dicembre 2022, dell’Accordo di Kunming-Montreal. Questo stabilisce un Quadro globale per la biodiversità che contiene una serie di obiettivi da raggiungere entro il 2030 per salvaguardare e utilizzare in modo sostenibile le risorse naturali, proteggendo allo stesso tempo i diritti delle popolazioni indigene e delle comunità locali.

Se Homo sapiens non risponde, speriamo lo faccia Homo economicus

Occuparsi del mondo naturale, cercare di proteggerlo e raccontarne le meraviglie è, senza alcun dubbio, uno dei lavori più belli e affascinanti che esistano. Tuttavia, il momento storico di oggi mette a dura prova la resilienza di chi, alla biodiversità, dedica corpo, anima e cervello.

Osservare la foresta pluviale scomparire per lasciare posto alla monocoltura di palma da olio in Guatemala; ascoltare il canto della rana arboricola recentemente scoperta in Costa Rica e sapere che è già minacciata di estinzione; assistere alla predazione di uova di tartaruga olivastra e sapere che, in una sola notte, un’intera generazione verrà cancellata dai bracconieri…

E dopo qualche ora trovare la forza di spiegare ancora, ancora e ancora perché la biodiversità va protetta. Guardare la platea e diffondere ottimismo. Iniziare la centesima conferenza sottolineando che tutto ciò che possediamo, la nostra stessa vita, dipende solo ed esclusivamente dai servizi ecosistemici che la natura ci offre. Cercare ogni volta un espediente narrativo coinvolgente, come quello delle balene che, con le loro feci, contribuiscono a fornirci l’ossigeno che respiriamo, o come la storia della sanguisuga da cui otteniamo un anticoagulante comunemente usato in sala operatoria.

Tutto questo richiede, sempre di più, un’enorme dose di forza. Perché Homo sapiens, per quanto geniale nella sua capacità di costruire opere ingegneristiche senza precedenti, continua a non capire che dal baratro verso cui sta spingendo la vita selvaggia del Pianeta non sarà in grado di salvarsi con il suo genio. Per farlo, avrà bisogno della natura.

Ecco perché, oggi più che mai, è fondamentale parlare anche a un altra specie di Homo, quello economicus. Quello dei numeri e delle tabelle con i profitti del mese. Quello che usa il marketing e la profilazione degli utenti per capire come vendere a sempre più persone un prodotto o un servizio che, guarda caso, esiste quasi sicuramente solo grazie alla natura.

Dati alla mano, quello che sappiamo è che il valore dei servizi ecosistemici che la natura ci offre a titolo esclusivamente gratuito (trovami chi altro è così generoso e disinteressato) oscilla tra i 16 e i 54 trilioni di dollari l’anno con una media pari a circa 33 trilioni. Investire nella natura offre l’opportunità di generare 10.000 miliardi di dollari di valore economico e di creare 395 milioni di posti di lavoro. E non è finita. È stato infatti stimato che per ogni dollaro speso in opere di rinaturalizzazione (rewilding) il ritorno economico sarebbe pari ad almeno 9 dollari che, in alcuni casi, può arrivare addirittura a 30.

In altri termini: se vogliamo continuare ad avere un sistema economico produttivo e fare in modo che sia resiliente alle crisi, dobbiamo proteggere la biodiversità. Questa, infatti, è al quinto posto nella classifica dei principali rischi per l’economia mondiale. 13 dei 18 settori che compongono il Financial Times Stock Exchange (Ftse), indice azionario delle 100 società più capitalizzate quotate al London Stock Exchange per un valore totale di 1,6 trilioni di dollari sul mercato, sono associati a processi produttivi con una dipendenza materiale dalla natura elevata o molto elevata. In altre parole, in mancanza di una biodiversità in salute e di servizi ecosistemici funzionanti, questi incorrerebbero (e lo faranno) in rischi operativi significativi.

Al contrario, investendo 140 miliardi di dollari l’anno per proteggere il 30% della terra e dell’oceano, come richiesto dall’Accordo Kunming-Montreal, e gestendo efficacemente le aree protette esistenti, la produzione economica globale aumenterebbe mediamente di 250 miliardi di dollari l’anno generando 350 miliardi di dollari di miglioramento dei servizi ecosistemici rispetto allo status quo.

Limiti e convivenza: i pilastri del nuovo modo di essere umani

Dal 1950 a oggi, la popolazione mondiale è cresciuta di 5,3 miliardi di persone, ed è aumentata l’aspettativa di vita che, alla nascita, è passata da 46 anni a 73 anni. Il Pil globale è cresciuto di 15 volte, fino a sfiorare la cifra record di oltre 130 trilioni di dollari l’anno e lo stesso reddito globale pro capite è aumentato di 5 volte, passando da qualche dollaro a oltre 17.000 l’anno.

Una situazione che potrebbe sembrare idilliaca se non fosse che ha determinato un utilizzo sconsiderato e sproporzionato di risorse equivalente a 1,7 Pianeti quando, fino a prova contraria, al momento ne abbiamo a disposizione solo uno. A titolo di esempio, basti pensare che in soli 20 anni, dal 1980 al 2000, la porzione di suolo utilizzata per l’agricoltura è aumentata di oltre 100 milioni di ettari, una situazione che ha riguardato soprattutto le aree tropicali, con impatti devastanti sia sul servizio di regolazione del clima che in termini di erosione e produttività del suolo, che è calata del 23%.

La velocità con cui consumiamo le risorse naturali e la sovrappopolazione, che di questa velocità è causa ed effetto allo stesso tempo, impongono una forte pressione sul mondo naturale e, pur considerando il prelievo diretto un elemento indispensabile alla nostra sopravvivenza, è chiaro che il modello debba subire quanto prima un’inversione di rotta e debba iniziare a considerare la natura come una alleata e non come un’entità asservita al nostro volere.

Mentre l’ultima nave della giornata abbandona la chiusa di Miraflores e il vento del nord inizia a disperdere l’umidità che attanaglia la città di Panama, coloro che sono venuti ad assistere allo spettacolo si guardano attorno con aria compiaciuta, quasi come il far parte della stessa specie di chi ha inaugurato, nel lontano 1907, i lavori di questa opera idraulica, li rendesse automaticamente parte di un’élite speciale e dominante. Perché siamo ancora così accecati dal nostro bisogno di dominio da non renderci conto che è giunto il momento di scendere dall’apice della Piramide in cui ci siamo messi 300.000 anni fa e stringere un accordo di mutua collaborazione con il mondo naturale a cui apparteniamo.

Il capitano della nave sorride e suona la sirena in segno di saluto. Un pellicano bruno si leva in volo, seguito da una fregata magnifica. Chissà se lo sanno, gli spettatori del Canale, che se un giorno voleranno su un aeromobile senza pilota lo dovranno agli studi compiuti sulle caratteristiche di volo di questo elegante uccello nero che svetta sui cieli delle Americhe.

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