Ambiente

Fashion: Ue vuole vietare la distruzione dei capi invenduti

La proposta di legge è stata approvata dagli Stati membri. Il 22 maggio ci sarà il trilogo con Consiglio dell’Ue e Parlamento. Degli oltre 6 milioni di tonnellate di rifiuti tessili prodotti, solo un quarto viene riciclato
Credit: Via circle-economy.com
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15 maggio 2023 Aggiornato alle 21:00

Forse non sarà la fine dell’industria della fast fashion, ma potrebbe essere il primo passo europeo per ridurne gli sprechi.

Gli Stati dell’Unione europea si sono espressi a favore del divieto di distruggere gli abiti invenduti. Degli oltre 6 milioni di tonnellate di rifiuti tessili che produciamo, secondo le stime di Bruxelles, solo un quarto viene riciclato.

Il resto finisce nei Paesi meno abbienti e, se anche in quel caso non riesce a trovare un proprietario, viene bruciato o si accumula in zone naturali, come il deserto di Atacama in Cile.

Il provvedimento aiuterebbe l’Unione a affrontare l’impatto ambientale del settore della moda, dal quale dipendono un quinto delle emissioni dei Paesi membri, e a evitare distorsioni di mercato.

Le aziende però affermano che un’eccessiva regolamentazione rischierebbe di soffocare l’economia del continente e alcune forze politiche hanno accolto queste lamentele. Anche il Presidente francese Emmanuel Macron ha chiesto una “pausa normativa” sull’adozione di misure per la tutela del clima: gli sforzi per applicare le nuove leggi, rischiano di distogliere governi e cittadini dal rispetto di quelle esistenti.

«La distruzione di prodotti di consumo invenduti, come tessuti e calzature» è diventata «un problema ambientale diffuso», a causa della rapida crescita delle vendite online, secondo la Commissione Ue.

La mole di vestiti nuovi che vengono distrutti, quando non vengono venduti o quando i consumatori li restituiscono, è enorme. La griffe britannica Burberry ha rivelato di aver bruciato merce invenduta per un valore di 28,6 milioni di sterline nel 2018. Il marchio, proprio in quel periodo, è stato al centro di numerose polemiche da parte delle associazioni ambientaliste.

Bruxelles aveva provato a correre ai ripari già a marzo 2022, con un piano per incoraggiare il riciclo e il riuso dei prodotti tessili. Aveva chiesto alle diverse aziende delle relazioni sul destino e sulla quantità degli stock scartati, non aveva però vietato esplicitamente la distruzione dei capi. Questa volta la risoluzione approvata dagli Stati Ue dovrebbe essere più severa. Il documento, afferma il quotidiano economico Financial Times, che ha visionato la bozza, prevede un divieto specifico per la distruzione di «abbigliamento o accessori di abbigliamento».

Le piccole imprese, per un primo momento, saranno esentate dal provvedimento. Le medie invece, con un massimo di 249 dipendenti e un fatturato annuo inferiore a 50 milioni di euro, potrebbero godere di una deroga. Non avranno invece scuse le multinazionali come H&M, che ha sede in Svezia, uno dei Paesi che si sono battuti con più forza per evitare che un bando esplicite venisse inserito nel testo finale.

La Commissione però ha avuto la meglio, anche grazie a Stati, come la Francia, che già da alcuni mesi hanno visto l’entrata in vigore di leggi simili.

Proprio Parigi, insieme a Germania e Paesi Bassi, ha spinto per includere nella proposta di legge anche dei nuovi requisiti di “progettazione ecocompatibile” per i beni venduti nell’Unione. Questi dovrebbero comprendere un “passaporto di prodotto”, che fornisca informazioni sulla realizzazione e garanzie di conformità per gli shop online.

Dalla bozza sono rimasti fuori altri beni di consumo, per esempio dispositivi elettronici, scarpe. L’esclusione più notevole è quella delle automobili, invocata fortemente da Berlino: il prodotto è già al centro del provvedimento per vietare la vendita di quelle alimentate da motori termici entro il 2035.

Ora la norma dovrà passare al vaglio dei ministri dell’Ue e del Parlamento Europeo, nel così detto Trilogo. Si attende l’ultima votazione, da parte degli Stati membri, il 22 maggio. Anche se alcuni eurodeputati hanno ventilato il rischio di un aumento di prezzo per i consumatori, dato dalle pratiche di riciclaggio, in genere il clima politico appare favorevole alla proposta. «È molto in linea con gli obiettivi dell’Ue in termini di ambiente e riciclaggio - ha dichiarato un deputato Ue al Financial Times - Non credo che sarà un onere aggiuntivo [per le imprese]».

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