Storie

Parità di genere, Lorenzo Gasparrini: «Mettere in atto educazione e divulgazione»

Attivista, filosofo, autore del libro Ci scalderemo al fuoco delle vostre code di paglia: intervistato da La Svolta, ha raccontato cos’è per lui il femminismo. E perché bisogna lottare
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12 maggio 2023 Aggiornato alle 18:00

Lorenzo Gasparrini è un filosofo, attivista, scrittore e formatore nell’ambito delle questioni di genere. Dopo la carriera accademica, si è occupato di divulgazione femminista in aziende, centri sociali, università, scuole, ordini professionali e riviste.

La particolarità del suo racconto femminista sono gli interlocutori: gli uomini. Ha scelto, infatti, di spiegare i femminismi a chi è la causa principale del maschilismo. Si occupa di parità di genere in diversi contesti, dal linguaggio alla comunicazione politica fino ai media; il suo ultimo libro, Ci scalderemo al fuoco delle vostre code di paglia. Perché tanti uomini hanno paura del femminismo (D Editore, 22 pagine, 16,90 euro) è uscito a Marzo. E ne ha parlato a La Svolta.

Da dove inizia la lotta per la parità di genere? Secondo te quali sono le spinte che provocano un cambiamento reale nella società? Dovremmo iniziare dalla cultura, dalle nostre abitudini, o dovremmo pretendere dei mutamenti legislativi concreti?

La lotta per la parità di genere inizia dall’essere sensibili a questa disparità nei rapporti quotidiani e nelle azioni di tutti i giorni, nelle parole più comuni che scambiamo con le persone. Cambiare queste abitudini consuete e mai discusse è la spinta più forte, motivata dalla responsabilità che chiunque dovrebbe arrivare ad avere per i propri gesti, le proprie parole, la costruzione dell’espressione del proprio genere fatta tra tante scelte possibili. Certamente è la cultura che deve cambiare e spingere per questi cambiamenti; le leggi servono, ma possono essere facilmente disattese se non è già avvenuto un cambiamento culturale.

Tu racconti e spieghi il femminismo principalmente agli uomini; c’è una maggiore accoglienza riguardo il tema parlando alle generazioni più giovani rispetto a quelle passate? Quali sono i comportamenti maschilisti ancora radicati nei più giovani?

No, ci sono difficoltà diverse, come anche soddisfazioni diverse. Più che accoglienza, parlerei di interesse: anche se si pone con modalità polemiche, chi è più giovane raramente rimane indifferente a questi discorsi. Invece, spesso, è un vero e proprio muro d’indifferenza quello che alzano le persone più grandi. Quello che vedo più spesso, in senso maschilista, nei comportamenti sociali dei più giovani è l’insensibilità verso la componente linguistica del potere patriarcale, con tante forme di molestia e di oppressione spacciate per linguaggio confidenziale e amichevole; insensibilità che poi si trasmette anche ai comportamenti non linguistici. Quando questa insensibilità non viene scossa o sollecitata, il risultato alla lunga è proprio quella indifferenza che descrivevo, in chi è più adulto.

Il tuo lavoro ha alla base la convinzione che la parità di genere si raggiunga con l’educazione, la divulgazione, il dibattito. Secondo te come si insegnano queste cose? Quanto incide il modello familiare? La scuola pubblica, per come è ora, ha le risorse e gli spazi per educare all’uguaglianza di genere?

Educazione divulgazione e dibattito si insegnano in un solo modo: mettendole in atto. Sono pratiche che vanno continuamente aggiornate e messe alla prova di tipi di pubblico diversi. Il modello familiare è importante ma va fatta anche una considerazione che, insieme, riguarda umiltà e comprensione: la famiglia è uno dei tanti agenti educativi in azione nella vita delle persone e quindi è certamente importante, ma non può assumersi compiti che non può sostenere. La famiglia non può sostituirsi alla rete dei pari, ai media, all’immaginario e al simbolico diffusi culturalmente, alle istituzioni; può fornire strumenti e un ambiente adatto a quelle pratiche di cui abbiamo parlato, ma non può svolgere compiti culturali che non le spettano se non facendo danni.

La scuola pubblica (uno degli agenti educativi) ha risorse e spazi per educare alla parità, ma manca ancora una volontà netta di farlo: se è vero che non manca nelle singole sedi o nei singoli territori, nei quali succedono molte cose a volte stupende, certamente manca a livello centrale e istituzionale.

La divulgazione femminista spesso transita in bolle chiuse e già educate riguardo il tema. Come si esce dalla bolla?

La bolla è un’illusione costruita proprio dalla tendenza a non praticare sensatamente divulgazione e dibattito, lasciando le scelte di argomenti e interlocutori a persone troppo simili a noi oppure ad algoritmi. Non c’è un luogo chiuso dal quale uscire, ma un enorme spazio ancora da esplorare: certo, senza invadere gli altri, ma anche senza illudersi rispetto a quello che vediamo e sentiamo solamente intorno a noi.

La notizia del neonato accolto dalla clinica Mangiagalli ha riaperto il dibattito intorno alla maternità: è risultato (senza troppe sorprese) che in Italia è un dovere morale della donna non solo portare a termine la gravidanza, ma anche esserne felice. Secondo te da dove deriva questa concezione?

Un noto bestseller internazionale, in classifica da diversi secoli, continua a raccontare che un genere ha il dovere di lavorare col sudore della fronte, e l’altro di partorire con dolore. Da questa concezione discriminante e oppressiva ne sono nate parecchie altre che continuiamo a non mettere in discussione, usando a vanvera termini come “natura” e “normale”. Il risultato di un dibattito in Italia relativo alla maternità non è che il risultato di un condizionamento vecchio di secoli e di una ignoranza sistematica.

Nel tuo blog segnali articoli, rappresentazioni, immagini, tweet o spot maschilisti. Gli stereotipi, soprattutto quelli più violenti, emergono nei racconti di cronaca dei femminicidi, in cui l’uomo maltrattante è giustificato, è “narcisista, amava troppo”. Che cosa cambieresti nella comunicazione politica relativa alla violenza di genere? E di quella giornalistica?

Tutto. Sono anni che da più voci (compresa quella di chi fa formazione come me su questi argomenti) chiede a chi fa comunicazione politica e giornalistica di assumersi la responsabilità delle parole ignoranti e violente che ancora si usano allegramente come se non fossero, in molti casi, un’ulteriore violenza sociale e personale. Parliamo di gruppi e ordini professionali che non hanno esitato a cambiare le loro pratiche a proposito di molti altri argomenti e ambiti, ma che quando chiedi di farlo relativamente alle questioni di genere e alla parità, i loro esponenti urlano ipocritamente alla censura e alla “dittatura del politicamente corretto”. Dimostrando altri livelli di ignoranza e di indifferenza da aggiungere ai precedenti.

Il 23 marzo è uscito il tuo ultimo libro Ci scalderemo al fuoco delle vostre code di paglia. Perché tanti uomini hanno paura dei femminismi, in cui affronti, tra gli altri, il tema della libertà di espressione in relazione al femminismo.

Ancora troppi uomini, soprattutto bianchi etero e cisgender, non hanno la benché minima idea sensata riguardo femminismi e questioni di genere, e di quanto questi argomenti potrebbero essergli utili nella vita personale e relazionale. E dove c’è ignoranza c’è chiusura, indifferenza ma anche reazione e violenza. Il vittimismo piagnone di tanti che gridano alla mancanza di libertà d’espressione (dai comici che non possono fare sessismo ai linguisti e agli scrittori che si sentono eroi sociali contro lo schwa) è solo l’indice della loro ignoranza e della loro supponenza.

Hai scelto di ribattere alle critiche e agli stereotipi (la femminista fanatica, aggressiva e polemica) creati intorno al femminismo. Perché questo approccio?

È uno dei tanti possibili. Credo serva ricordare che essere femminista non significa dover evangelizzare lande desolate e lasciate a popolazioni barbare e primitive, ma compiere quel primo gesto rivoluzionario che, diceva Rosa Luxemburg, consiste nel “chiamare le cose col loro nome”. Quelli che non si assumono la responsabilità sociale del loro genere vanno chiamati col loro nome. Il mio libro ricorda questi nomi, tutto qui.

Ogni capitolo è dedicato a un “tipo” di uomo diverso (il comico, l’esperto linguista, quello che legge i libri); qual è stato nella tua esperienza l’interlocutore più difficile?

Sicuramente quello che nel libro non c’è: quello che non legge, che spesso non ascolta neanche. E che spesso è un uomo bianco etero cisgender molto tipico. Per fortuna ci sono persone di genere diverso che di solito comprano libri e gli dicono “leggi”. Non è così che vorrei che i miei libri arrivassero agli uomini, ma intanto è un modo per scuoterli dall’indifferenza.

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