Diritti

La lettera scarlatta oggi è una M.

Un neonato è stato affidato alla Culla per la Vita. E così, in men che non si dica, è partita la fiera del “mamma, ripensaci”. Ovviamente, tutto frutto di chi pretende di sapere cos’è meglio per una donna
Credit: Anna Shvets
Ella Marciello
Ella Marciello direttrice comunicazione
Tempo di lettura 7 min lettura
12 aprile 2023 Aggiornato alle 06:30

Domenica scorsa un neonato è stato affidato alla culla termica dell’ospedale Mangiagalli di Milano. La Culla per la Vita, così è denominata, permette di accogliere un neonato di cui i genitori non possono occuparsi. È stata attivata nel 2007 ed è posizionata in un angolo discreto, al riparo dalle telecamere, in modo che chi si accinga a utilizzarla abbia la massima protezione. La Culla è dotata di un sensore che avvisa il personale sanitario ma lascia comunque il tempo alla persona di allontanarsi senza esser vista e garantendo così il totale anonimato.

Se questo fosse vero, dell’anonimato dico, non avremmo letto la nota stampa dell’ospedale milanese e nemmeno le parole del direttore generale, tanto meno quelle del primario di neonatologia. Che invece sono arrivate, copiose, prima ai microfoni di Adnkronos Salute e da lì, come una superba discesa agli inferi, attraverso ogni quotidiano. Fino a lei, alla donna che quel bambino l’ha partorito.

Sono state diffuse le parole di una lettera che accompagnava il bambino, sono state fatte analisi sullo slang utilizzato, che potrebbe darci info preziosissime sull’età della madre. È stato reso noto il nome, il colore della tutina che il bambino indossava al momento del ritrovamento, il suo stato di salute.

Ciò che ha un nome inizia a esistere e allora gridiamolo il nome di questo bambino, così che abbia una identità, una faccia, così che inizi lentamente a materializzarsi nelle nostre teste.

Un racconto morboso infarcito di indizi, come se questo fosse stato il grande enigma di Pasqua che il nostro Paese aveva il compito di risolvere. Dai, cerchiamo di capire tutti insieme chi mai sarà questa povera sfortunata, diamo voce a questo dolore (?), facciamo sì che ci ripensi, per il bene di mamma e bambino ma soprattutto nostro, delle nostre coscienze che hanno tanto bisogno di una bella storia a lieto fine. Quanto ci piace pensare alla sacralità del materno che si compie nonostante le impervie vie dell’esistenza.

Una caccia al tesoro collettiva come collettivi sono tutti i discorsi che hanno a che fare con le donne, con i loro corpi e con le loro volontà per il semplice motivo che ancora, nell’anno del Signore 2023, raccontiamo un sacco di fandonie alle bambine, alle ragazze e alle donne e consegniamo radar che intercettino le loro decisioni nelle mani di chi quelle decisioni dovrebbe ritenerle inviolabili.

Nel Paese in cui si stanziano centinaia di migliaia di euro per il sostegno alle donne che decidono di non abortire (solo in Piemonte, 400.000), che è lo stesso paese in cui le associazioni Pro Vita mandano in affissione agghiaccianti campagne contro l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza e fanno pressioni davanti alle cliniche affinché chi ha operato una scelta consapevole cambi idea, arriva la storia perfetta, quella inattaccabile persino da chi considera l’aborto un omicidio. Una donna porta a termine una gravidanza e decide di non tenere con sé il bambino, avvalendosi di quel tanto sciorinato “anonimato” di cui chiunque si sta riempiendo la bocca. Ma non basta.

«Vivo questo evento anche come una sconfitta a livello sociale, perché in qualche modo non siamo stati in grado di intercettare una madre in grande difficoltà. Vorrei che sapesse – racconta Mosca, direttore del reparto di Neonatologia – che può ancora riprendersi il suo bambino, noi possiamo aiutarla a farglielo crescere e che nulla è perduto». A corredo di queste parole misericordiose un bel «Adesso è diventato un nostro bambino, nostro figlio. La mia speranza, però, è ancora che la sua mamma ci ripensi».

Ci sono una miriade di validissimi motivi per cui una donna può decidere consapevolmente di non tenere il proprio bambino e tutti sono appannaggio della madre soltanto. Il perché ci si senta in diritto di voler convincere chi ha operato una scelta (che viene immancabilmente contrassegnata come dolorosa, così come dolorosa deve essere ogni scelta legata al materno) mi è oscuro.

Di questa donna non sappiamo nulla ma pretendiamo di conoscere tutto: l’età, le motivazioni, il suo dolore, il suo stato economico, quanto ami questo bambino e perché debba esser convinta a tenerlo. Un racconto mediatico a cui, anche volendo, non ci si può sottrarre. Perché in questa storia manca solo il nome della madre e magari un indirizzo, cosicché chiunque le possa piombare in casa al grido di “riprenditelo!”

È sconcertante come nemmeno il silenzio sia un diritto e come quel silenzio sia stato infranto proprio da chi, per legge, è tenuto a osservarlo scrupolosamente. Ma si sa, l’autodeterminazione è una bella parola solo sulla carta, non di certo nei fatti. È molto più solido il pensiero pervasivo della società che detta ciò che una donna può o non può fare, ciò che può e non può decidere. Arriva dall’alto e si propaga senza soluzione di continuità, ritenendo moralmente accettabile o meno qualcosa come una scelta consapevole. E tentando il tutto e per tutto al fine di far ritrattare quella scelta, perché è la società che decide che posto e che ruolo tu debba avere.

Ti hanno fatto madre e ora tu madre devi essere. Una M scarlatta sul petto, il ricatto mediatico collettivo, una violenta umiliazione pubblica è ciò che riserviamo a chi decide per sé. Un gigantesco monito a chi vorrà scegliere in futuro: guarda che succede se non fai come dovresti.

In questo scenario da apocalisse medievale, come se non bastasse il resto, abbiamo anche il tizio mediamente famoso che si accora in un messaggio di cui sinceramente nessuna (e mi auguro anche nessuno) sentiva l’esigenza: tra un tapiro da consegnare e un belandi del Gabibbo, Ezio Greggio a social unificati ci fa sapere che il paternalismo non è morto e che è qui che vive e lotta insieme a noi.

«Lancio un appello per trovare e convincere la mamma di Enea, bimbo abbandonato ieri nel giorno di Pasqua alle 11.30 alla Mangiagalli di Milano e del quale se ne è preso cura il Prof. Fabio Mosca che ha già lanciato un appello. Il bimbo è bellissimo, sta bene, e con altri amici siamo pronti a dare una mano alla mamma di Enea: torna alla Mangiagalli e ti prometto che non sarai sola. Zio Ezio».

E poi: «Riprendi il tuo bambino, merita di avere la sua mamma vera, non una che dovrà occuparsene e che non è la mamma vera. Ci conto tanto».

Non so da dove iniziare ma inizierei dalle parole, come sempre.

Trovare.

Convincere.

Abbandonato.

Bellissimo.

Sta bene.

Amici.

Non sarai sola.

Zio Ezio.

Mamma vera.

Ci conto.

Insomma, l’ennesimo maschio privilegiato lievemente agée che decide per una donna riguardo le sue scelte riproduttive e lo fa usando parole di una violenza inaudita. Lo fa sottintendendo che con i soldi il “problema” non sussisterebbe e che può usare i suoi. Lo fa come se si potesse comprare un ripensamento, nella migliore tradizione dei telefilm polizieschi. Lo fa come se conoscesse la natura economica della scelta.

Il punto è che non lo sa. Ma parla. Perché qui, davanti al suo milione di follower solo su Instagram, Greggio fa un compendio assolutamente non ragionato di ciò che significa essere una donna che compie una scelta legittima.

Ti troveremo e ti convinceremo a cambiare idea. Lo stiamo già facendo in ogni luogo. Hai abbandonato questo bambino, è moralmente riprovevole, come può una madre arrivare a tanto. Il bambino è bello, è sano: un po’ di abilismo che non guasta mai, come se avere un figlio non bello e non sano fosse la peggiore delle disgrazie.

Noi siamo tuoi amici, i tuoi amici ricchi. Ti promettiamo che non sarai sola, guarda: mi sono intestato pure una linea di parentela con questo bambino. Sono Zio Ezio, colui che comprerà la tua conversione a madre buona e giusta come tutti noi ci aspettiamo.

Tu sei la madre vera, non chi adotterà. Zio Ezio ci conta, con il suo inalienabile diritto di poter pontificare sulle vite estranee alla sua, su decisioni e corpi altri, sulla libertà che non deve in alcun modo esser rispettata e al contempo schiaffeggiando violentemente ogni genitore adottivo del Pianeta.

Questa retorica, servita su un piatto d’argento, tornerà utile ogni volta che si parlerà di genitorialità, attraverso una lente viziata e ingiusta che ha già fagocitato e risputato questa storia e le sue persone.

In tutto questo lancio un interrogativo aperto: com’è che nessuno si è chiesto dove sia il padre?

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