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Si può sopravvivere alla crisi climatica?

L’ultimo rapporto di sintesi dell’Intergovernmental Panel on Climate Change ci ricorda che possiamo ancora salvare il Pianeta e rimanere sotto la soglia di +1,5°. Ti spieghiamo come
Credit: Annie Spratt
Tempo di lettura 7 min lettura
20 marzo 2023 Aggiornato alle 17:15

Un manuale per la sopravvivenza dell’umanità, scritto da umani che confidano in altri umani affinché si impegnino a proteggere il futuro di tutte le specie.

Sembra fantascienza ma non lo è, tutt’altro: quello uscito dalle stanze di Interlaken, località Svizzera dove si sono riuniti gli scienziati di tutto il mondo (compresi i luminari di Russia e Ucraina) sono un insieme di «istruzioni per disinnescare la bomba climatica», come ha dichiarato il segretario generale Onu Antonio Guterres.

Dopo infinite ore di discussioni, l’Ipcc (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico), l’organismo più importante al mondo che fornisce indicazioni relative all’andamento dell’emergenza climatica, ha chiuso e presentato il sesto ciclo di valutazione (chiamato AR6), pubblicando il Rapporto di sintesi, documento scientifico che indica ai Governi cosa è necessario fare per sopravvivere alla climate change.

Il Rapporto conferma proprio questo: è obbligatorio lavorare per rimanere sotto la famosa soglia di +1,5° decisa nell’Accordo di Parigi, altrimenti le conseguenze potrebbero essere catastrofiche. Per prima cosa, più gli anni passano più gli scienziati si rendono conto che, anche a temperature più basse, gli impatti dei fenomeni meteorologici sono più forti rispetto a quanto ipotizzato in precedenza.

Nel documento (un testo “faro” da qui al 2030, dato che passeranno almeno altri 7 anni prima di nuove indicazioni dell’Ipcc) viene spiegato come le emissioni sono in costante aumento: abbiamo infatti raggiunto livelli record di CO2 in atmosfera, tanto da arrivare a +1,1 gradi rispetto all’epoca preindustriale.

Perché siamo arrivati a questo punto? La risposta è da ricercare soprattutto nell’utilizzo dei combustibili fossili: quasi l’80% delle emissioni arrivano dal settore energetico, industria, trasporti, edifici, il restante 20% soprattutto da agricoltura e uso dei suoli.

Fatto il danno, ora dobbiamo porci obiettivi per tentare di frenare il surriscaldamento: se vogliamo restare sotto i +1.5 gradi allora bisogna percorrere un cammino preciso che, a oggi, abbiamo circa il 50% di possibilità di raggiungere. Come fare? Per prima cosa, entro il 2030 bisogna ridurre del 48% le emissioni di CO2, del 65% entro il 2035; fra 17 anni, dobbiamo toccare quota 80% e, infine, nel 2050 sfiorare il 100%.

Senza politiche mirate per camminare lungo questa strada, il futuro delle prossime generazioni è a serio rischio, così come peggiorerà la condizione di vita in diversi Paesi del mondo. Già oggi sono gli abitanti e le specie dei luoghi meno responsabili delle emissioni a pagare il conto: le comunità vulnerabili sono colpite in maniera sproporzionata da eventi meteo, e circa 3,3/3,6 miliardi di persone vivono in contesti altamente critici per i cambiamenti del clima. Gli abitanti di queste aree hanno avuto 15 volte più probabilità di morire a causa di inondazioni, siccità e tempeste tra il 2010-2020 rispetto a quelle che vivono in regioni con una vulnerabilità molto bassa.

Lo stesso vale per gli ecosistemi: alcuni, come quelli dell’Artico, si stanno avvicinando a un punto di non ritorno tra ritiro dei ghiacciai e disgelo del permafrost. Vale anche per le persone, se si guarda a come è compromessa la sicurezza idrica e alimentare: stanno aumentando i tassi di mortalità e le malattie, così come gli sfollamenti in Africa, Asia, Nord America e America centrale e meridionale o le isole del Pacifico. Tutto ciò, oltretutto, non fa che aumentare le disuguaglianze sociali.

Detto questo, possiamo ancora salvarci? La risposta, nel manuale di sopravvivenza, è “Sì” ma dobbiamo migliorare tante cose, a partire dalle politiche di adattamento (oggi giudicate al di sotto delle necessità, soprattutto perché non equamente distribuite). Ma anche per i livelli di liquidità e finanziamenti per il clima le scelte intraprese sono finora inadeguate (troppi investimenti nel fossile, per esempio).

Stesso discorso per le politiche di mitigazione: i finanziamenti tracciati sono ancora al di sotto dei livelli necessari per limitare il riscaldamento a 2°C o 1,5°C. Questo anche perché molti Paesi non stanno attuando (o ancora non ne ha uno) piani nazionali di contrasto alla crisi del clima: senza inversione di rotta, fanno sapere dall’Ipcc, arriveremo a un riscaldamento globale di 3,2°C entro il 2100.

Eppure, in questo scenario preoccupante, ci sono anche buone notizie: sviluppi rapidi dell’energia solare ed eolica, l’elettrificazione dei sistemi urbani, i piani green delle città, la protezione delle foreste, la riduzione in certe aree del consumo di suolo o degli sprechi alimentari. Il punto è che queste buone pratiche, per essere davvero efficaci, necessitano di politiche immediate (come decarbonizzazione e taglio alle emissioni). Perché in un mondo più caldo, le opzioni di adattamento e mitigazione che oggi abbiamo non è detto che funzioneranno.

“Il lavoro è vitale, urgente e possibile. Un futuro resiliente e vivibile è ancora a nostra disposizione, ma le azioni intraprese in questo decennio per ottenere tagli alle emissioni profondi, rapidi e sostenuti rappresentano una finestra che si sta rapidamente restringendo per consentire all’umanità di limitare il riscaldamento a 1,5°C con un overshoot minimo o nullo” sostengono gli scienziati, sottolineando anche l’importanza di impegnarci per il ripristino della natura, la più preziosa alleata contro il surriscaldamento, dato che nell’ultimo decennio ha assorbito circa il 54% delle emissioni di anidride carbonica prodotte dalle attività umane.

E tutto questo vale ovunque, in ogni Paese, anche per la nostra Italia che, come ha ricordato uno degli autori del rapporto, Piero Lionello, «è soggetta ai rischi tipici dell’Europa Mediterranea, alcuni dovuti a peculiarità del cambiamento climatico, altri alla particolare vulnerabilità di ecosistemi e settori produttivi: dalla diminuzione della precipitazione alla vulnerabilità delle coste, all’importanza economica del settore turistico alla vulnerabilità degli ecosistemi terrestri e marini, minacciati anche da sovrasfruttamento e inquinamento».

Tutte queste informazioni ora sono nelle nostre mani: a noi scegliere se trattarle come un bugiardino da ignorare, nonostante contenga le soluzioni per la cura, oppure come un vero manuale di istruzioni per riparare i danni fatti.

«La bomba climatica - spiega Antonio Guterres, Segretario Generale Onu - scandisce i secondi. Ma il rapporto Ipcc è una guida pratica per disinnescare la bomba a orologeria climatica. Come il rapporto mostra, il limite di 1,5 gradi è realizzabile. Ma ci vorrà un salto di qualità nell’azione per il clima. Ciascun Paese deve essere parte della soluzione. Chiedere agli altri di fare la prima mossa, vuol dire soltanto essere certi che l’umanità arriverà per ultima».

La sostanza, ricordano anche i think tank e i gruppi di lavoro italiani che da anni seguono da vicino i rapporti Ipcc e le Conferenze delle parti sul clima, è che per invertire davvero la rotta non si può più perdere tempo.

Il rapporto di sintesi è infatti «l’ennesima conferma di una situazione critica e di una scienza inascoltata – chiosa Serena Giacomin, Presidentessa di Italian Climate Network – Gli assessment report dell’Ipcc sono la rassegna scientifica più approfondita e accreditata sul cambiamento climatico a disposizione dell’umanità. In particolare, questo report si appoggia su una mole di dati ed evidenze di enorme valore strategico. Dobbiamo imparare a utilizzare questi dati per analizzare il presente e scegliere il nostro futuro. Dobbiamo superare il livello di mera consapevolezza del problema climatico – necessario, ma non sufficiente - e applicare i dati con strategie di azione».

«La scienza parla chiaro – spiega Giacomin –, il tempo per agire con azioni di adattamento e mitigazione è poco, ma gli strumenti conoscitivi e tecnologici ci sono. Non serve altro che la volontà. Come Italian Climate Network facciamo un appello al mondo della comunicazione, perché si stringa al mondo scientifico e lo aiuti a superare le barriere del dubbio e del ritardo d’azione. Collaborazione e senso costruttivo sono alla base di un processo di sviluppo sostenibile, la transizione di cui abbiamo bisogno non è solo ecologica, ma culturale. La scienza non ha dubbi, così non si può andare avanti e più aspetteremo più gli impatti della crisi climatica saranno difficili da sopportare».

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