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Oggi è la Giornata nazionale del Fiocchetto Lilla

Anoressia, bulimia, binge eating, ortoressia e vigoressia. Sono disturbi del comportamento alimentare: nomi diversi, spesso sconosciuti. Ne abbiamo parlato con Aurora Caporossi, fondatrice e presidente di Animenta
Aurora Caporossi, fondatrice e presidente di Animenta
Aurora Caporossi, fondatrice e presidente di Animenta
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15 marzo 2023 Aggiornato alle 10:00

Un’epidemia silenziosa che oggi accomuna più di 3 milioni di persone in Italia. Gran parte sono giovani nella fascia tra i 14 e i 25 anni che soffrono di disturbi alimentari (Dca). Ma nel nostro Paese è ancora complicato aiutarli, curarli e rendere visibile agli occhi di tutti la loro malattia.

Oggi, 15 marzo, nella Giornata nazionale del Fiocchetto Lilla, istituita nel 2018 per creare maggiore consapevolezza verso questi disturbi, abbiamo approfondito cosa si nasconde dietro le malattie legate all’alimentazione. Per farlo, abbiamo intervistato Aurora Caporossi, fondatrice e presidente di Animenta, associazione nata come spazio di ascolto, confronto e accoglienza per chi ha affrontato o sta affrontando un disturbo del comportamento alimentare.

Proprio Caporossi, che oggi aiuta a dare speranza a chi soffre di Dca, all’età di 16 anni ha sofferto di anoressia nervosa: un percorso lungo e travagliato, ma che è riuscita a superare vittoriosa.

«I numeri nascondono le persone e le loro storie – ha spiegato a La Svolta - Sono tante quelle che non riescono ad accedere alle cure, non riescono ad avere una diagnosi sia perché i luoghi di cura non sono abbastanza sia per lo stigma sociale».

Secondo lo studio dell’International Journal of Eating Disorder del 2022, i sintomi associati ai disturbi alimentari sono aumentati del 36%; forte aumento anche per i ricoveri ospedalieri, che hanno raggiunto +48%. Un altro dato preoccupante, è l’abbassamento dell’età di insorgenza dei disturbi, tra gli 8 e i 10 anni.

Una vera e proprio epidemia che non può più essere definita “silenziosa”.

Cosa sono i disturbi del comportamento alimentare? Quali sono i meno conosciuti, ma che si stanno “espandendo”?

I disturbi del comportamento alimentare, sono patologie psichiatriche complesse che riguardano un’alterazione del comportamento alimentare e della percezione corporea. Non è, però, solo una questione di cibo: il rapporto con questo e con il corpo è l’espressione di un disagio che si trova nel profondo, di un dialogo mancato che non si riesce a costruire a parole.

I Dca più conosciuti sono l’anoressia nervosa, la bulimia nervosa e il binge eating disorder. Tuttavia esistono altre forme di disturbi alimentari molto diffuse ma di cui si parla meno, come l’ortoressia nervosa, caratterizzata dall’ossessione per i cibi considerati “sani” e non contaminati: ossessione che porta a una diminuzione della qualità della vita. La vigoressia o complesso di Adone, che si manifesta attraverso una forte preoccupazione legata al fatto che il proprio corpo non presenti abbastanza massa muscolare. Il disturbo evitante restrittivo dell’assunzione del cibo, che porta chi ne soffre a ridurre notevolmente l’apporto di alimenti assunti o a evitarne alcuni. Ma rispetto all’anoressia nervosa, non si ha un’ossessione per il corpo e per il peso.

Quali sono le prime cause che portano a un disturbo alimentare? Si possono individuare o prevenire?

Esistono dei campanelli di allarme che possono farci accorgere se una persona soffre di un disturbo alimentare. Per esempio, cambia il modo in cui mangia: tende a spezzettare il cibo, a mangiarlo in modo prolungato nel tempo, a eliminare alcuni alimenti che possono diventare fear food, ovvero cibi fobici. Oppure cucina molto ma spesso non mangia quello che ha cucinato; cresce in lei una sensazione di ansia quando si avvicina il momento del pasto; mangia in segreto quando nessuno la guarda, spesso di notte, facendo incetta di grandi quantità di cibo, come può accadere con il binge eating disorder. Ciò che credo sia importante dire è che, anche se il cambiamento del peso è uno dei campanelli di allarme per l’insorgenza di un disturbo alimentare, questa patologia può vivere in ogni tipo di corpo e non sempre si ha una grande variazione del peso corporeo.

Come impattano sulla vita sociale?

I disturbi alimentari sgretolano ogni relazione sia all’interno della famiglia che fuori. Ci si isola sempre di più, si limitano le occasioni di convivialità fino ad arrivare ad annullare le uscite con gli amici, in particolare quando si tratta di una cena o di un pranzo fuori. Ci si chiude sempre di più, ci si allontana dagli affetti più cari per paura di non essere capiti, per la vergogna di dire quello che ci sta accadendo, per la paura di essere giudicati.

Io ero rimasta senza amici, la mia classe non riusciva a capire che cosa mi fosse accaduto quell’estate. Più io non uscivo, più loro non mi cercavano. I Dca riguardano molto la relazione che abbiamo con noi stessi, con lo specchio, con il cibo, ma soprattutto con gli altri. Si intrufolano in ogni aspetto della vita di una persona.

Quanto pesa l’influenza dei social network sul grave aumento della percentuale dei giovani che hanno iniziato a soffrire di Dca? Qual è, se c’è, il modo più “corretto” per comunicare le patologie sui social?

I social media sono uno strumento potentissimo che ci è stato consegnato, ma nessuno ci hai mai insegnato a utilizzarli considerando l’impatto sociale che hanno sulle nostre vite e, soprattutto, sulla percezione del nostro corpo o delle nostre abitudini alimentari. Hai mai provato a scrivere disturbi alimentari nella barra di ricerca di Google immagini? Ti usciranno foto di corpi molto emaciati, bilance oppure immagini di frigoriferi con grandi quantità di cibo intorno. Un disturbo alimentare non è solo questo. È l’espressione di un disagio profondo che non riesce a essere espresso a parole. Queste narrazioni hanno creato una storia unica e, come afferma Chimamanda Ngozi nel suo TedX, il pericolo di una storia unica è che crea stereotipi. I disturbi alimentari sono stati per tanto tempo raccontati in modo incompleto. Il rischio è di romanticizzarli.

Per questo, credo sia importante capire che ogni persona che comunica online ha una responsabilità verso la propria community. Lavorare su come parlare riguardo determinati temi, sulle parole e le immagini che vengono utilizzate, è importante. Instagram ha provato a fare un primo passo verso chi soffre di queste malattie: digitando l’hashtag #eatingdisorders nella barra di ricerca, infatti, compare un banner in cui si informa l’utente che i contenuti potrebbero rappresentare dei trigger, chiedendo se si desidera proseguire con la visualizzazione. È inoltre disponibile un’ulteriore finestra in cui viene offerta la possibilità di chiedere aiuto. Quest’ultima opzione ci porta su help.instagram.com, una pagina che offre la possibilità di parlare con un amico, con una helpline di volontari che possano supportare e offrire ascolto, di accedere a una serie di informazioni utili.

Come ci si cura e come si guarisce?

Ci si cura chiedendo aiuto e, soprattutto, trovandolo. Utilizzo il termine “trovare” perché a oggi le cure per i disturbi alimentari non sono distribuite in modo uniforme, non tutti gli ambulatori hanno delle equipe adeguatamente formate e costruite. La cura di un disturbo alimentare passa attraverso un trattamento interdisciplinare con personale formato riguardo queste patologie, costituito da un medico psichiatra, medico specialista in Scienza dell’Alimentazione, uno psicologo psicoterapeuta, un dietista e altre figure che possano intervenire nel percorso di recovery. È importante poi considerare anche la sofferenza della famiglia, che è fondamentale includere nel percorso terapeutico.

Ho sempre pensato, quando mi sono ammalata di anoressia nervosa, che la validità della mia malattia dipendesse dal mio peso. Negli anni ho scoperto che non è così. Che dobbiamo chiedere aiuto, senza toccare il fondo. Bisogna riscoprire il valore dell’esistenza per chi in questo mondo proprio non riesce a starci.

Cosa dovrebbe fare, secondo te, un amico, un fratello, un genitore che si accorge che una persona ha un disturbo alimentare?

Impotenza, frustrazione, dolore e rabbia. Sono queste le parole che emergono maggiormente dagli incontri che facciamo con Animenta, con chi vive accanto a chi soffre di un disturbo alimentare. Ogni cosa che fai sembra essere sbagliata, e tanto più provi a essere di supporto, tanto più vedi che la persona si allontana. In associazione, stare accanto a una persona che soffre di un disturbo alimentare lo chiamiamo “la porta socchiusa” che consiste nell’essere presenti per quella persona senza giudizio, senza invadenza. Significa esserci. E come dire: “Io ti ho visto, so che stai male. Sono qui e non ti giudico”.

Bisognerebbe evitare i commenti su corpo, cibo e peso. In una società che elogia la magrezza, siamo soliti ricevere molti complimenti quando perdiamo una taglia, ma non conosciamo la storia di quella persona, non sappiamo cosa ci sia dietro quella perdita di peso. Nella relazione con il cibo passano emozioni, sofferenze ed esperienze che molte volte non riusciamo a vedere. Inoltre, è fondamentale costruire un ambiente, sia a casa che non, che sappia accogliere la persona lavorando sulle relazioni.

All’età di 16 anni anche tu sei caduta nella trappola dell’anoressia nervosa. Cosa ti ricordi di quel periodo e come vedevi il tuo corpo?

Di quel periodo non ricordo molto, a dire il vero. Molte cose le ho lette nelle lettere scritte alla mia famiglia, nelle foto di quel periodo e nelle parole di mia mamma. Ricordo però il freddo che provavo in pieno agosto. Era Ferragosto, durante il falò che ogni anno facciamo sul lungomare di Tor San Lorenzo. Era un freddo glaciale quello che sentivo, e non penso potrò mai scordarlo. Non ricordo come fosse il mio corpo, ma ricordo un episodio di quando a danza riuscii a vedere per la prima volta il modo in cui lo avevo trasformato. Un corpo che non riconoscevo, un corpo di cui non avevo una reale percezione.

Ricordo il sensore al lato del passeggero che non suonava quando non mi mettevo la cinta e lo sguardo di mio papà che non capiva cosa stesse accadendo. Soprattutto, non ricordo che emozioni provassi, non ricordo che cosa è accaduto in quegli anni, non ricordo le cose fatte sia belle che brutte. La malattia ti toglie tutto, ti toglie te stessa.

Hai aperto un’associazione, Animenta, che informa e sensibilizza sul tema dei Dca e che è molto seguita anche sui social: chi si rivolge a voi e che tipo di aiuto chiede? E voi come aiutate?

Animenta nasce per essere un ponte tra chi cerca supporto e chi lavora per poterlo dare, al fine di non far sentire quel profondo senso di solitudine di cui mi racconta sempre mia mamma. Quella solitudine che ti porta a chiedere all’infinito se da questo dolore si uscirà mai. Siamo partiti dai social media con l’idea di decostruire gli stereotipi che, ancora oggi, caratterizzano queste malattie, attraverso una comunicazione che accoglie e che aiuta le persone a sentirsi meno sole e a chiedere aiuto.

Per far ciò, siamo partiti dalle storie di chi ha vissuto un disturbo alimentare, direttamente o indirettamente. Parliamo a chi soffre di un Dca ma anche a insegnanti e istituzioni, per riuscire a lavorare in modo sistemico e sistematico. Per le attività Instagram ci avvaliamo del supporto di professionisti per una corretta informazione. Abbiamo anche un supporto psicologico online, realizzato in collaborazione con Unobravo, con psicoterapeuti esperti in disturbi alimentari.

Inoltre, l’associazione ha un respiro nazionale anche grazie alle attività che svolgiamo, come le Let’s Eat Together, cene virtuali dove si condivide il momento del pasto, o i laboratori di cucina che, grazie al supporto di Fondazione Cotarella, portiamo in giro per tutta Italia.

Cosa dovrebbe fare, secondo te, la politica e le istituzioni per comprendere meglio il problema e aiutare chi soffre di queste malattie?

In una sola parola chiederei di agire, di fare. Sono tanti i momenti di discussione e confronto che, sia noi che le associazioni prima di noi, hanno avuto con le istituzioni per discutere riguardo i disturbi alimentari. Siamo sempre aperti al dialogo ma sappiamo quello che ci serve: concretezza. Occorrono ambulatori in tutte le regioni con equipe specializzate nel trattamento dei disturbi alimentari, programmi permanenti di prevenzione nelle scuole, partendo dalle elementari, che coinvolgano professionisti adeguatamente formati.

Bisogna lavorare includendo le associazioni, sempre, perché spesso le richieste di aiuto arrivano prima a noi. Non possiamo più essere, come siamo stati definiti per tanto tempo, una epidemia silenziosa.

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