Diritti

Le persone indigene sono esseri umani, come tutti

30 anni fa, la tribù Batwa (Uganda) fu costretta a lasciare le proprie terre per far posto a un parco naturale. Se non fossero stati “indigeni”, sarebbe successo ugualmente?
Credit: Luca Catalano Gonzaga/witness image
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14 marzo 2023 Aggiornato alle 06:30

Nel film di animazione Lilo & Stitch (prodotto da Walt Disney Feature Animation) la Terra, sulla quale si è rifugiato Stitch, un mostro frutto di un esperimento di laboratorio, si salva dalla distruzione prospettata dal presidente del consiglio della Federazione Galattica perché l’unico Pianeta sul quale si trovano le zanzare. Qui, vivono anche gli esseri umani (e tante altre specie), una “primitiva forma di vita umanoide” che offre nutrimento alle zanzare stesse.

Questa è stata la prima immagine che mi è venuta in mente quando ho letto delle disavventure vissute dalla tribù ugandese dei Batwa (conosciuti anche come Pigmei) quando circa 30 anni fa l’Uganda decise di creare il Bwindi Umpenetrable Forest Park, dove si trovano, tra l’altro, i gorilla di montagna: un popolo indigeno stabilito per secoli nella zona montuosa esistente ai confini tra Uganda, Ruanda e Repubblica Democratica del Congo. Una tribù forzata a spostarsi in altri territori, con la promessa di terre che, non sapendo coltivare (il loro habitat era la foresta e vivevano soprattutto di caccia, ma anche di raccolta di ciò che il bosco offre) alla fine vennero vendute.

Alcuni giorni fa, questa popolazione ha protestato per reclamare il rispetto dei propri diritti umani. Sì, propri: perché quando si parla di diritti umani, l’essere umano tende spesso (magari anche in modo sproporzionato) a considerare diritti solo quelli “personali”, senza curarsi di quelli degli altri se non quando non tocchino i propri (del resto, come ci ha insegnato Liliana Segre, l’indifferenza è il primo passo della strada che porta all’abominio).

Perché far spostare la tribù visto che non minacciava la vita dei gorilla con i quali viveva? Perché nella biodiversità tanto reclamata, le popolazioni “diverse” vengono sempre per ultime? E perché il sentimento di pietà è sempre solo per l’animale e non anche per la specie umana?

Riguardo la prima domanda, credo che buona parte della responsabilità sia da attribuire all’approccio occidentale e, in particolare, europeo del periodo colonialista e neocolonialista. Ancor prima nel Medioevo e in fase rinascimentale, sovrani e signorotti abituati a creare grandi e piccole riserve per il proprio piacere di caccia (spesso fine a se stessa) proibivano la presenza delle persone che uccidevano la selvaggina per nutrirsi anche attraverso pene severe, come le mutilazioni o la morte in caso di violazione dei divieti imposti (esiste anche una canzone di Fabrizio De André che lo ricorda, Geordie).

Tutto ciò non è così relegato nel passato: basti pensare che ancor oggi le cronache raccontano di Masai uccisi perché presenti nei grandi parchi della Tanzania, dove un tempo uccidevano i leoni come rito di passaggio all’età adulta (forse lo fanno anche ora, per difendere i propri greggi). Leoni che, invece, ben possono morire se uccisi dal cacciatore occidentale durante safari organizzati, e che poi verranno esibiti senza ritegno sui social.

Non solo: in Tanzania si sta ripetendo la politica degli allontanamenti dai parchi nazionali di Loliondo e Ngorongoro, dai quali i Masai (a detta delle autorità sconfessate dalle proteste, anche violente, dei Masai stessi) si starebbero allontanando volontariamente.

In questo contesto, il parco naturale (anche quando non più riserva di caccia) diventa un santuario, dove l’essere umano (indigeno) deve sparire perché attenterebbe agli animali che vivono lì, senza distinguere tra chi va a caccia per vendere avorio o pelli pregiate e chi uccide per nutrirsi (anche se, spesso, i primi lo fanno per la stessa esigenza, se è vero che gli episodi di bracconaggio sono cresciuti durante la pandemia, una situazione che ha portato alla fame molte persone, in Africa come altrove).

Riguardo la seconda domanda, relativa alla diversa sensibilità verso la sofferenza animale e umana, ritorno sul tema delle gerarchie tra le specie, che un tempo raffiguravano le persone in cima alla piramide, ben rappresentata alle porte d’entrata di tanti giardini zoologici di epoca liberty (pensa a quello di Roma): ma non qualsiasi essere umano, solo quello è uguale a te.

E così, mentre con gli animali la distinzione è netta e possono quindi essere oggetto di amore e compassione, l’indigeno che vive secondo schemi ai quali non siamo soliti (o forse semplicemente non più abituati) e che anche morfologicamente non ci somiglia, scende nella scala dei valori, ben al di sotto di quelli in cui poniamo gli altri essere viventi e ai quali, invece, assicuriamo protezione.

E allora, tornando al cartone della Disney, mi viene da pensare che forse la comunità Batwa si sarebbe salvata se le zanzare o altri parassiti fossero vissuti in quelle foreste e fossero state specie protette: forse, in questo caso, li avrebbero lasciati lì proprio per assicurare il benessere delle specie in pericolo.

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