Diritti

Femminicidio: la politica dell’uccidere le donne

Nel 1992 Jane Caputi e Diana Russell hanno spiegato per la prima volta cosa significa questo termine e il “continuum di terrore anti-femminile” di cui è l’esito fatale. Una riflessione ancora drammaticamente attuale
Credit: Jasmin Che
Tempo di lettura 7 min lettura
8 marzo 2023 Aggiornato alle 10:00

“Come lo stupro, molti assassini di donne da parte di mariti, amanti, padri, conoscenti e sconosciuti non sono il prodotto di una devianza inspiegabile. Sono femminicidi, la forma più estrema di terrorismo sessuale, motivata dall’odio, disprezzo, piacere o un senso di proprietà delle donne. Il femminicidio include l’omicidio per mutilazione, per stupro, aggressioni che finiscono in un omicidio, il martirio delle streghe nell’Europe Occidentale e delle spose e vedove in India, e i “crimini d’onore” in alcuni paesi dell’America Latine del Medio Oriente, dove le donne che si pensa che abbiano perso la loro verginità sono uccise dai loro parenti maschi. Chiamare le uccisioni misogine femminicidi rimuove il velo oscurante di termini non relativi al genere come omicidio e assassinio”.

In questo passaggio del capitolo introduttivo di Feminicide: the politics of woman killing, curato nel 1992 da Jill Radford e Diana H. Russell, viene per la prima volta definito il significato della parola femminicidio. Le autrici, Jane Caputi e Diana Russell stessa, riescono in due pagine a chiarire perfettamente la scala del problema e a collegarlo ai tanti altri aspetti sociali a cui è interconnesso. Per esempio, notano come “la diffusa identificazione maschile degli assassini dimostra quanto il femminicidio sia radicato in una cultura sessista” e come “la misoginia non solo motiva la violenza contro le donne ma distorce anche la maniera con cui la stampa si occupa di questi crimini. Il femminicidio, lo stupro e le aggressioni sono largamente ignorati o sensazionalizzati nei media, in base alla razza, classe e attrattiva (secondo gli standard maschili) della vittima”.

E, infine “il femminicidio è all’estremità finale di un continuum di terrore anti-femminile che include un’ampia varietà di abusi verbali e fisici, come lo stupro, la tortura, la schiavitù sessuale (specialmente nella prostituzione), abuso sessuale incestuoso e extra-familiare sulle bambine, aggressioni fisiche e psicologiche, molestie sessuali (per telefono, in strada, nel posto di lavoro e a scuola), mutilazioni genitali (clitoridectomia, escissione, infibulazione), operazioni ginecologiche non necessarie (isterectomie ingiustificate), eterosessualità forzata, sterilizzazione forzata, maternità forzata (visto che la contraccezione e l’aborto sono criminalizzati), psicochirurgia, il divieto al cibo alle donne in alcune culture, operazioni chirurgiche cosmetiche, e altre mutilazioni nel meno dell’abbellimento. Quando queste forme di terrorismo portano alla morte, si tratta di femminicidio.”

A fare da cornice alla scrittura e pubblicazione di questo libro ci sono due elementi che meritano di essere analizzati.

Primo, è interessante soffermarsi sul particolare taglio che le due autrici hanno dato alla loro lotta femminista, prima e dopo aver lavorato a questo testo. Diana Russell aveva già usato il termine femminicidio in relazione ai suoi studi di psicologia e scienze sociali e in campagne contro i crimini sulle donne negli anni 70. Più in particolare, nel 1974 Russell mobilitò altre femministe in una campagna per avere il primo tribunale interazione per i crimini contro le donne. Il suo interesse si espanse anche all’ambito della pornografia: nel 1977 fu parte delle persone che fondarono l’organizzazione Woman Against Violence in Pornography and Media (donne contro la violenza nella pornografia e nei media- Wavpm), la prima organizzazione sul tema negli Stati Uniti e a livello internazionale. E, poco dopo, anche alle armi nucleari: nel 1983 per dimostrare il ruolo del patriarcato nell’avanzamento delle armi nucleari, mise in piedi il Feminists’ Anti-Nuclear Group (gruppo femminista anti-nucleare - Fang).

In Feminicide: the politics of woman killing Jane Caputi si era focalizzata sull’impatto della rappresentazione delle donne nella stampa, nei film, nei libri eccetera, concludendo che “il continuum di materiali – dagli snuff film veri e propri ai fumetti per maschi – promulga, legittima, sessualizza, propaga e promuove l’atto femmicida.” Questa attenzione a come mezzi non politici o ufficiali raffigurano i personaggi femminili è continuata nel tempo: Caputi ha, infatti, pubblicato numerosi articoli dedicati al tema, tra cui “The Real “Hot Mess”: The Sexist Branding of Female Pop Stars” (“il vero problema caldo: la brendizzazione sessista delle pop star femmine”-2014), “The Color Orange? Social Justice Issues in the First Season of Orange Is the New Black” (il colore arancione? Problemi di giustizia sociale nella prima stagione di “Orange in the new Black”- 2015).

Secondo, è il caso di ricordare il contesto storico in cui il libro è stato scritto e pubblicato. Il libro è datato 1992: l’anno della dissoluzione dell’Unione Sovietica, dell’inizio del Maxiprocesso e Tangentopoli, della firma del trattato di Maastricht da parte dei paesi membri della CEE, della guerra in Bosnia e Erzegovina, dellaa fuga di Pablo Escober dalla sua prigione e della riabilitazione di Galileo Galilei da parte della Chiesa cattolica, solo per citare alcuni eventi conosciuti.

Quello che forse è meno noto, ma rilevante, è che il 1992 è l’anno in cui il Giappone si è scusato per aver costretto e donne coreane alla schiavitù sessuale durante la seconda guerra mondiale; l’anno in cui la prima donna canadese, Riverta Lynn Bondar, è andata nello spazio; e l’anno in cui la Chiesa d’Inghilterra ha votato per permettere alle donne di diventare sacerdoti.

Sono passati più di 30 anni, ma questa riflessione merita di essere ricordata, non solo come omaggio a queste due grandi ricercatrici, ma soprattutto perché i dati continuano a mostrare come la società non si sia ancora liberata degli stigma alla base dei femminicidi.

Basta vedere i risultati dell’ultimo studio della fondazione Libellula, secondo cui il 43% degli uomini che hanno completato il questionario afferma di non considerare la violenza sulle donne come un problema che li riguardi direttamente; il 42% crede che gli uomini siano indistintamente colpevolizzati nei discorsi sulla violenza di genere, senza che si tangano conto di sfumature; il 45% che la spinta sessuale sia spesso alla base dei comportamenti maschili verso le donne; il 54% che il pensiero sessuale sia tipico dell’interagire maschile, nel senso di battute a sfondo sessuale e di oggettificazione della donna nelle conversazioni.

Non solo: non sembra essere cambiata nemmeno l’idea del funzionamento delle relazioni familiari: il 63% degli uomini intervistati sente di dover proteggere le donne nella propria famiglia e il 52% di essere l’unico responsabile della situazione economica familiare. Per questo, anche se lo studio presenta altri dati, più incoraggianti – il 95% degli uomini non crede che esternalizzare emozioni e sensibilità equivalga a non essere virili – è ancora fondamentale raccontare la storia di due importanti personaggi femminili, che non hanno solo aiutato la lingua a evolversi, ma anche la società nel fare un passo avanti nel riconoscere la specificità, e la tragicità, della violenza di genere.

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