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Elisa Ercoli: «Saman Abbas poteva essere salvata»

Domani ci sarà la seconda udienza del processo contro la famiglia della diciottenne pakistana uccisa perché rifiutava un matrimonio combinato. La Svolta ha incontrato la presidente dell’associazione Differenza Donna, costituitasi parte civile
Alessia Ferri
Alessia Ferri giornalista
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16 marzo 2023 Aggiornato alle 18:00

L’associazione Differenza Donna lavora da anni per contrastare la violenza sulle donne e la discriminazione di genere. Tra le molteplici azioni che porta avanti una delle ultime è la costituzione come parte civile nel processo per la morte di Saman Abbas, la ragazza pakistana uccisa in provincia di Reggio Emilia dalla sua famiglia per aver rifiutato un matrimonio forzato.

In vista della seconda udienza, La Svolta ha intervistato la sua presidente, Elisa Ercoli che ci ha parlato del valore di questa scelta.

Perché avete deciso di costituirvi parte civile?

Il femminicidio di Saman ci ha colpito per tanti motivi. Il primo è che lei era riuscita a scappare ma poi è stata lasciata sola e questo rende l’epilogo ancora più drammatico e al contempo complesso da analizzare.

Noi ci occupiamo da sempre di violenza di genere anche in contesti di migrazione e nuove generazioni e conosciamo tutti gli elementi in gioco che andrebbero considerati, ma che invece spesso sono ignorati, per prevenire ed evitare se possibile che tra le famiglia d’origine e i figli si formino distanze talmente siderali da sfociare in episodi come questi.

La violenza sulle donne esiste a prescindere dalle culture e dalle religioni, sappiamo bene quale sia la situazione italiana, e ci siamo costituite parte civile per ribadirlo ma anche per portare all’attenzione di tutti quello che si dovrebbe fare in situazioni delicate come quella di Saman.

Ovvero?

Per prima cosa considerare il contesto. In questo caso stiamo parlando di una famiglia pakistana arrivata in Italia tramite il meccanismo più diffuso: il permesso di lavoro del padre che poi ha consentito a madre e figlia di usufruire del ricongiungimento familiare.

Le donne che arrivano nel nostro Paese con questo metodo, come la madre di Saman, sono quelle che chiamiamo invisibili perché schiacciate dalla figura del marito. Non partecipano alla vita sociale, non accompagnano i figli a scuola o dal pediatra e non imparano la nostra lingua, ma spesso si fanno aiutare nell’interpretariato proprio dai più piccoli che invece la imparano velocemente. Così facendo con il passare del tempo il loro ruolo genitoriale scema, soccombe e non dialoga più con la trasformazione incredibile che hanno i bambini e le bambine che crescono e vanno a scuola nelle città italiane.

Oltre al ruolo femminile c’è da considerare che le famiglie che emigrano cristallizzano la cultura del Paese dal quale provengono. Gli italiani quando arrivarono negli Stati Uniti all’inizio del secolo scorso, mantennero per decenni usi e costumi che qui con il passare del tempo scemarono.

Allo stesso modo i migranti che oggi vivono in Italia senza interagire con il luogo nel quale vivono rappresentano la parte più radicale del loro Paese d’origine che invece spesso va avanti.

Tutti questi aspetti concorrono a preparare il terreno alla violenza di genere e non possono essere ignorati se si mira a cambiare questa situazione.

Cosa si può fare quindi?

Cercare di raggiungere le migranti, alfabetizzarle e informarle dei diritti che hanno nel nostro Paese, così da aiutarle a liberarsi da situazioni di violenza. Non ci sono mediatori culturali in ospedali, tribunali e altri luoghi di ascolto perché la politica si è sempre occupata in modo generico di immigrazione senza però mai soffermarsi sulle esigenze specifiche delle donne.

E poi serve fare rete. Essere a questo processo per noi significa dire a chiare lettere che è necessario aprire un dialogo tra la cittadinanza, la società civile e le istituzione per affrontare insieme il problema.

Di matrimoni forzati come quello che sarebbe spettato a Saman Abbas in Italia si parla poco. Eppure sono diverse le comunità che li praticano.

Eccome. Saman si era fidanzata con un ragazzo di una casta diversa, rifiutando lo sposo che era stato scelto per lei dalla sua famiglia, che ha vissuto il fatto come uno scandalo e una sfida personale da punire.

Eppure Saman ha provato a salvarsi

Il rammarico più grande è proprio questo. Era stata messa sotto protezione, aveva raccontato della volontà della famiglia di farla sposare con un cugino molto più vecchio di lei ma nessuno ha fatto nulla e il motivo è molto semplice: manca la conoscenza profonda delle norme e degli approcci necessari in questi casi, dove la violenza sulle donne si somma all’interserzionalità e agli scontri culturali all’interno delle famiglie.

Una procedura d’ufficio avrebbe potuto salvarla e invece siamo qui ancora una volta a raccontare lo stesso rituale che si rinnova a ogni femminicidio, con le donne che quasi sempre prima di essere uccise chiedono aiuto senza ottenerlo.

Non possiamo più permettercelo. Serve un passo avanti deciso delle istituzioni e la volontà di tutti nel capire la complessità che si cela dietro le violenze di genere, che non sono tutte uguali ma contaminate da altri fattori altrettanto determinanti.

In Italia ci sono realtà molto evolute, con servizi sociali, forze dell’ordine e istituzioni che collaborano con noi a livelli altissimi ma ci sono anche tanti luoghi in cui non esiste nulla.

Manca un approccio sistemico in cui i centri antiviolenza siano il fulcro dei processi perché maggiormente vicini a ciò che succede ma siano anche aiutati da una rete di supporto.

Domani è in programma una nuova udienza, quale sarà il vostro ruolo?

In aula ci sarà l’avvocata Maria Teresa Manente, responsabile dell’ufficio legale di Differenza Donna. La nostra associazione non si è costituita solo parte civile ma è stata ammessa al banco dei testimoni quindi arriverà anche il momento della mia testimonianza ma ancora non sappiamo la data.

Il caso Saman ha toccato tantissime persone e perché non avvengano più femmininicidi simili il processo ai suoi familiari speriamo sia la, seppur tragica, occasione per creare una maggiore consapevolezza collettiva e perché il desiderio di libertà e autodeterminazione delle donne non debba mai più essere pagato con la vita.

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