Ambiente

Le etichette scritte nei tessuti che ci aiuteranno a riciclare gli abiti

In Europa solo il 26% dei vestiti usati viene riciclato, mentre il resto contribuisce e non poco all’inquinamento globale. La Svolta ha intervistato Brian Iezzi, inventore di una fibra fotonica che può essere tessuta negli indumenti, rendendoli più facilmente riciclabili
Credit: Material District
Tempo di lettura 5 min lettura
19 febbraio 2023 Aggiornato alle 20:00

Il boom del cosiddetto fast fashion non accenna ad arrestarsi. I prezzi bassi dei capi spingono molti verso acquisti superficiali che portano poi a disfarsi della merce in modo molto veloce, ma che fine fanno tutti i vestiti accaparrati proprio in virtù di questo meccanismo e sostituiti senza troppi pensieri?

Come testimoniano diverse inchieste, la maggior parte finisce, alla pari dei rifiuti elettronici, in maxi-discariche come quella di Kpone o nei grandi mercati come quello di Kantamanto, entrambi a Accra, Ghana.

Ne parla in modo approfondito un volume pubblicato da poco dall’attivista e imprenditrice statunitense Maxine Bédat: Il lato oscuro della moda-Viaggio negli abusi ambientali (e non solo) del fast fashion (Post Editori). E no, il riciclo non è ancora una soluzione.

«Secondo il Bureau of International Recycling in Europa i tassi di riciclo di vestiti e tessuti è intorno al 26%, anche se con gradi differenze da Paese a Paese», spiega a La Svolta Brian Iezzi, ingegnere dei materiali e post-doc all’università del Michigan, autore di uno studio sull’argomento pubblicato su Advanced Materials Technologies.

La ragione per cui il riciclo nel tessile funziona ancora poco è in realtà banale: spesso le aziende e i consorzi che se ne occupano non sanno che materiali stanno recuperando e di cosa siano composte le balle di indumenti da avviare al potenziale riciclo perché le etichette tradizionali spesso saltano: possono essere rimosse, tagliate, strappate o diventare illeggibili dopo mille lavaggi.

E un capo senza etichetta è letteralmente un capo orfano, dal punto di vista di una possibile seconda vita.

Il riciclo potrebbe dunque essere più efficace se un’etichetta fosse in qualche modo incorporata nel tessuto, illeggibile finché non ci sia bisogno di scansionarla, con uno specifico sistema.

Brian Iezzi, insieme all’ingegnere chimico Max Shtein, ha inventato proprio qualcosa del genere: etichette tessute realizzate con fibre fotoniche, ispirate dalle strutture cromatico-biologiche delle ali delle farfalle.

In cosa consiste la vostra invenzione?

Abbiamo sviluppato una fibra che incorpora al proprio interno una struttura materiale in grado di controllare determinati tipi di luce. Le farfalle hanno strutture simili nelle loro ali per creare il colore. Possiamo controllare questa struttura per creare firme luminose uniche che possono essere lette in modo simile a come avviene con un codice a barre in un negozio. La parte interessante dell’invenzione è che la fibra ha dimensioni simili ai filati tessili tradizionali, come poliestere e cotone, e può essere tessuta, lavorata a maglia o cucita nei tessuti in modo che non possa essere rimossa, diventando un identificatore permanente.

Cosa sono le fibre fotoniche?

Un materiale lungo e sottile progettato e disegnato per controllare e/o trasmettere la luce. Di solito vengono usate nelle telecomunicazioni per inviare segnali luminosi, ed è così che abbiamo internet veloce a banda ultra-larga. Quelle fibre sono fatte di diversi tipi di vetro, le nostre sono molto simili ma al posto del vetro utilizziamo diversi tipi di plastica.

Questo codice a barre fotonico è pronto per un’applicazione su larga scala?

Si tratta di una nuova invenzione e, sulla base di ciò che è necessario nell’industria, sarà probabilmente necessario un ulteriore sviluppo tecnico. Tuttavia, il processo per creare la nostra fibra è molto scalabile, in laboratorio possiamo creare chilometri di codice a barre in fibra fotonica in pochissimo tempo. Anche i materiali hanno un costo molto basso, trattandosi di plastiche facilmente reperibili in tutto il mondo. Grazie a questi fattori pensiamo che il codice a barre fotonico potrebbe essere pronto per l’integrazione commerciale su larga scala in un breve lasso di tempo, potenzialmente entro pochi anni.

In che misura il fast fashion è responsabile di questa montagna di vestiti economici di cui non sappiamo cosa fare?

Negli ultimi decenni c’è stato un enorme aumento della quantità di abbigliamento prodotto proprio perché esistono aziende fast fashion che lanciano molto frequentemente nuove collezioni. Quando si parla di inquinamento tessile di solito si attribuisce a loro tutta la colpa ma non bisogna dimenticare che anche i consumatori prendono decisioni, quindi non è un problema semplice da risolvere. Credo che ci sia bisogno di una transizione verso aziende di moda che promuovono capi di abbigliamento di miglior design e qualità. Saranno ovviamente più costosi ma consentiranno al consumatore di utilizzarli per un tempo più lungo, il che ridurrà notevolmente l’impronta di carbonio di un singolo indumento e consentirà a quel vestito di essere venduto a un buon prezzo sul mercato dell’usato.

Penso che le nostre fibre possano aiutare in questo perché forniranno ai singoli capi una storia che non può essere rimossa e consentirà al primo, secondo, terzo acquirente di capire dove, quando e come sono stati realizzati e quali materiali sono stati impiegati. Esiste già una transizione verso questa mentalità ma al momento è limitata a mercati più costosi, mentre invece deve essere resa più disponibile al grande pubblico per combattere davvero questo problema.

Leggi anche
Sostenibilità
di Giorgia Colucci 4 min lettura
Moda sostenibile
di Giorgia Colucci 4 min lettura