Diritti

Speculum, l’arma della violenza ginecologica?

La paura della visita, legata alle modalità di esecuzione e alla scarsa sensibilità di alcuni sanitari, può essere un rischio per la salute delle donne. Per questo serve cambiare approccio, partendo dagli strumenti
Credit: Cliff Booth
Tempo di lettura 8 min lettura
13 febbraio 2023 Aggiornato alle 14:00

In queste settimane si è parlato molto – finalmente – di violenza ostetrica. Una serie di attività o atteggiamenti medici, inutilmente abusanti e non necessari, che colpiscono la donna al momento del parto e immediatamente dopo.

Atteggiamenti fisici e verbali in grado di causare un trauma talmente profondo da dissuadere almeno un milione di donne (2 su 10) dall’avere altri figli, facendo nascere paura e diffidenza verso l’intero personale sanitario ginecologico e ostetrico.

Ma molte donne, anche senza aver partorito, conoscono bene la sensazione di essere toccate e trattate senza alcun tatto in molte situazioni che riguardano la salute femminile.

La visita ginecologica, così come è concepita, può essere fonte di imbarazzo ma anche di fastidio, dolore e disagio psicologico, spesso non necessari. Partendo dagli obsoleti strumenti utilizzati, dalla scarsa considerazione della soggettiva della soglia del dolore, fino ad arrivare ad atteggiamenti impropri del personale sanitario.

Esperienze sgradevoli – se non addirittura traumatiche – legate alla prevenzione femminile, però, possono spingere le donne a evitare o ritardare visite, anche quelle necessarie e talvolta salvavita. Comportando, di fatto, una compressione del loro diritto alla salute.

E se iniziassimo a parlare di violenza ginecologica?

E se uno degli strumenti più usati in ginecologia, lo speculum, fosse parte del problema?

Ripensare la visita ginecologica

Qualsiasi donna si sia sottoposta, nella vita, a un accertamento ginecologico conosce bene la sensazione di vulnerabilità che la visita porta inevitabilmente con sé.

A partire dalla posizione da assumere (con le gambe divaricate e i genitali esposti) passando per gli strumenti utilizzati (spesso freddi e metallici) arrivando fino alla scarsa empatia del personale sanitario, che può sfociare in un comportamento aggressivo e abusante.

Partiamo dai dati: sappiamo che moltissime donne non si sottopongono ai necessari screening diagnostici per timore della visita ginecologica. Molte altre, dopo esperienze traumatiche pregresse, rifiutano di sottoporsi nuovamente ai controlli. Un’indagine di Unisalute del 2022 ha evidenziato come solo il 50% delle donne avesse effettuato una visita ginecologica nei 12 mesi precedenti e il 30% delle donne tra i 30 e i 44 anni non avesse mai eseguito un pap test.

Dati allarmanti che fanno preoccupare per il livello di prevenzione per malattie potenzialmente molto gravi, come il tumore della cervice, diagnosticabili solo a seguito di visita specialistica ed esami di riferimento.

Possibile che le modalità con cui queste indagini vengono effettuate siano inadeguate al punto da spingere le pazienti a rinunciarvi a rischio della propria salute? Si può considerare come cambiarle possa favorire un miglior rapporto medico-paziente?

Uno degli elementi principali che interferiscono con la buona riuscita degli accertamenti ginecologici consiste nel fatto che in molti casi la visita viene fatta in maniera brutale, senza tenere in considerazione l’aspetto psicologico a essa connesso.

Se per il medico si tratta dell’ennesima paziente sull’ennesimo lettino presa da una lista di nomi mensile chilometrica, per la donna specifica potrebbe trattarsi di un evento unico e temuto.

Chiederle di sottoporsi all’esame in un ambiente caotico e inidoneo, a esempio in una stanza dove entrino ed escano diversi membri del personale o con luci troppo forti, può essere controproducente. Così come non tener conto del pudore o del senso di vergogna soggettivo della paziente, spingendola a denudarsi e posizionarsi sul lettino in maniera frettolosa e sgarbata. Basterebbero delle accortezze minime per mettere a proprio agio la paziente, senza farla sentire più esposta del dovuto e in condizioni accoglienti o rispettose della sua intimità.

Quel che viene, poi, rimproverato al personale sanitario è la scarsa propensione al dialogo e alla richiesta di consenso per procedere ai vari step degli esami. Il tono e il linguaggio, utilizzati in presenza della paziente, dovrebbero spingerla a una piena consapevolezza delle varie fasi della procedura senza farla sentire violata o impreparata a eventuali esplorazioni intime.

Se è vero che vi si sottopone volontariamente e previo consenso informato, non per questo si può pensare di agire sul suo corpo in maniera automatica e sbrigativa senza renderla partecipe di ciò che si sta praticando, del motivo per cui va fatto e lasciandole la possibilità di essere parte attiva e non passiva dell’intera procedura.

Si dovrebbe spiegare chiaramente alla paziente cosa si sta facendo e chiedere alla stessa di esprimersi liberamente: a esempio dire se la procedura sta provocando fastidio o dolore eccessivi, se desidera procedere con più lentezza o se preferisce fermarsi anche una volta iniziato.

La si può invitare a respirare e rilassarsi, facendo in tal modo di procedere meglio all’esame, ma senza utilizzare modalità umilianti, riversando sulla paziente la responsabilità di eventuali problemi di tensione e dolore che rendano impraticabili le procedure.

Si dovrebbe, insomma, passare dall’ormai superato “paternalismo medico” e realizzare una vera alleanza terapeutica tra il professionista e la paziente.

Lo speculum: uno strumento inutilmente doloroso?

Quando si parla di paura e dolore durante gli accertamenti ginecologici, uno degli aspetti più criticati è l’utilizzo dello speculum. Questo strumento, risalente addirittura all’epoca dei romani, è rimasto pressoché identico per millenni, senza subire alcuna modifica sostanziale.

Se in molti studi privati si trovano generalmente speculum monouso in plastica, in molte strutture viene ancora utilizzato quello in metallo. Questo materiale non solo crea più attrito con la mucosa ma risulta freddo al tatto, portando le pareti vaginali a una contrazione che è controproducente per il suo stesso inserimento.

Se per molte donne il mancato rilassamento delle pareti vaginali può provocare un semplice fastidio temporaneo, per molte altre (soprattutto se affette da determinate patologie come la vulvodinia) può tradursi in dolore intenso, microlesioni e difficoltà a portare a termine l’esame.

L’utilizzo dello speculum è particolarmente doloroso per le donne che hanno l’utero “retroflesso” (o, più semplicemente, al contrario): una condizione che secondo le stime colpisce 1 donna su cinque ma che potrebbe essere più diffusa, fino al 30%.

L’utilità dello speculum per consentire alcune procedure, come il paptest, è indiscussa; quel che ci si chiede è se non sia possibile creare uno strumento che sia meno invasivo, studiando modelli e utilizzando materiali di nuova concezione.

Negli Usa, Ceek Women’s Health ha disegnato una gamma diversificata di speculum pensata per adattarsi ai diversi corpi e alle esigenze diverse. Yona, invece, è un prototipo di speculum dal design innovativo che permette una visualizzazione completa della cervice diminuendo il dolore e che – oltre a eliminare il rumore fastidioso dell’apertura – è rivestito in silicone, così da ridurre il freddo e rendere l’inserimento meno doloroso.

Le proposte ci sono, ma negli studi medici si trova sempre il vecchio, temuto, speculum. Non stiamo parlando di forma, ma di sostanza: se uno speculum moderno può evitare un inutile dolore durante la procedura di indagine ginecologica, perché non considerarlo? In questo modo si eliminerebbe una fonte di stress dell’esame, che spinge troppo spesso le donne a evitare o rimandare le visite compromettendo la propria stessa salute. Ancora, il dolore delle donne sembra non essere una variabile da considerare.

Lo speculum “per vergini”

Se lo speculum in sé (così come attualmente realizzato) viene già considerato uno strumento invasivo e fastidioso dalle pazienti, questo può caricarsi di un significato aggiuntivo se associato a un giudizio morale sul corpo della donna.

Quel che poche persone sanno, infatti, è che esistono diverse dimensioni dello speculum ginecologico, la più piccola delle quali viene definita “speculum per vergini” piuttosto che, semplicemente, “piccolo” o XS.

Le pazienti vengono valutate idonee all’utilizzo di uno strumento in base alla loro presunta assenza di attività sessuale piuttosto che per la loro condizione anatomica. Questo non fa che renderle più vulnerabili: sentirsi esposte, sul lettino ginecologico, e sentire richiedere uno speculum “per vergini” o “per non vergini” – con tutte le implicazioni morali che questa valutazione ancora comporta – inserisce una valutazione legata al contesto sociale, che lega la verginità alla sola integrità dell’imene escludendo qualsiasi forma di sesso non penetrativo. quando l’unica cosa che conta dovrebbe essere una valutazione medico-scientifica. Anche questo è uno dei fattori che intimorisce le donne nel sottoporsi ad alcuni esami intimi.

Considerato che il “test della verginità” basato sulla presenza dell’imene è ormai una pratica abominevole, che dovrebbe essere superata, sarebbe il caso di escludere qualsiasi menzione della “verginità” dal lessico del Sistema Sanitario Nazionale. Non sarebbe più semplice parlare solo di dimensioni? Diverse perché coerenti con la diversità anatomica di ogni corpo e non più legate a una valutazione etica di quello che quel corpo ha – o non ha – fatto.

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