Diritti

Rompere le bolle

Possiamo criticare il monologo di Ferragni, ma se ci aspettavamo femminismo e messaggi politici forse l’errore è nostro. A trionfare è un qualcosa-washing che va bene per tutti. Intanto, però, se ne parla. Ci basta?
Credit: Via instagram.com/@chiaraferra
Ella Marciello
Ella Marciello direttrice comunicazione
Tempo di lettura 6 min lettura
8 febbraio 2023 Aggiornato alle 15:45

L’appuntamento più atteso della serata inaugurale del Festival di Sanremo è stato il monologo lungamente annunciato di Chiara Ferragni.

Una piccola premessa, a latere del discorso: dovremmo interrogarci come collettività molto a fondo sul perché la presenza delle donne debba costantemente essere motivata e giustificata. Perché le loro parole debbano avere dieci strati di lettura, debbano contenere messaggi importanti e una intrinseca pesantezza emotiva. Perché debbano, come si dice in gergo, “arrivare”. È come se non bastasse mai, nemmeno per quelle donne privilegiate i cui piedi calcano il palco più blasonato d’Italia nella manifestazione più nazional popolare che esista.

Le donne, fintamente denominate co-conduttrici, paiono avere una precisa funzione catartica per il pubblico sonnolente dentro e fuori lo schermo, quella di mostrare che bisogna guadagnarsi persino l’esser guardate. Essere belle, ma soprattutto brave. Però belle, in prima battuta.

Dimentichiamoci per un momento la spinta progressista che vuole le vallette avere altro scopo (perché anche a Sanremo le poltrone che contano sono occupate dalle terga dei maschi, dalla direzione artistica al Cda) e riflettiamo insieme sui tre appuntamenti retorici che usano – ma solo per un attimo – la voce delle donne per incanalarla in un megafono che fa sentire tutti al riparo.

Se Ferragni nella sua lettera a se stessa ha parlato sostanzialmente della sua vita e del non sentirsi abbastanza, Egonu e Francini – secondo le notizie trapelate fin qui – porteranno all’Ariston discorsi sul razzismo, l’amore senza etichette e i diritti umani.

Perché si sa, delle donne è la cura e la pedagogia, ma solo se e quando gli uomini decidono che sia il momento di passar loro il microfono.

Ha detto benissimo l’anno scorso Ferilli, in un discorso femminista dall’inizio alla fine: “ma perché la mia presenza deve essere per forza legata a un problema?”. Una lezione potentissima sul ruolo che ci è stato affidato e su ciò che quando non c’è più speranza viene dato in mano alle donne. Parlare di temi rischiosi quando è rischioso farlo, il potere a doppio taglio di dover risvegliare coscienze sopite e il peso ingombrante del silenzio di azioni che arriverà quando le luci del palco si spegneranno.

Il vuoto che rimane quando cala il sipario.

Eppure, ieri sera milioni di persone sono state incollate dall’attesa di Ferragni e del suo monologo. Da un punto prettamente tecnico, il brand Ferragni funziona esclusivamente dentro un formato story, con la camera rivolta verso se stessa e con l’aiuto di una sapiente strategia commerciale. Fuori da quel cerchio sono immediatamente evidenti le falle del brand, non della persona, nonostante gli sforzi di reiterare il detto formato. Chiunque sarebbe stata emozionata in un momento come quello e probabilmente a chiunque sarebbe tremata un po’ la voce. Questa autenticità e questa semplicità, però, le ho trovate vincenti anche fuori dal contesto digitale in cui siamo abituate a inscriverla.

No, il monologo non era ben scritto. No, non aveva una durata plausibile. E no, non basta un compendio ragionato di dieci keyword femministe da inserire qui e là a renderlo degno.

Ma il punto è esattamente questo.

Cosa ci aspettavamo da Ferragni? Ferragni non è femminista nonostante mandi messaggi e compia talvolta azioni che possono definirsi così. Perché se lo fosse, l’incipit del suo discorso avrebbe contenuto la keyword più importante di tutte: privilegio. Ferragni non è femminista nonostante si faccia portavoce di temi femministi perché il brand Ferragni ha necessità di insinuarsi in alcuni cluster di target ancora in bilico, in cui certe keyword pesano più di altre.

Ma se ci aspettavamo un messaggio politico e delle azioni politiche da Ferragni a Sanremo siamo noi a commettere delle fallacie logiche. La retorica tanto cara al Ministero del Merito del “se vuoi ce la fai” (guarda caso, la stessa largamente ostentata dal sogno capitalista americano e, per traslato, dalle destre iper produttiviste nostrane) non funziona per tutte e tutti perché non possiamo non contemplare l’eredità di condizioni sociali ed economiche diseguali sulla linea di partenza. Questa linea di pensiero presta il fianco al sillogismo conseguente, quello del “se non ce la fai è perché non ti sei impegnata” ed è terrificante che sia proprio una donna, privilegiata, a diventarne megafono.

Indovinate a quanta gente, lì fuori, tornerà utile questo discorso. Immaginate dove sarà gerarchicamente seduta rispetto a voi.

Eppure, di nuovo, cosa ci aspettavamo? Di diverso dalla Chiara bambina che sentiva di non farcela e poi invece sì, di diverso dalla “gioia più grande” – i figli – e gli stessi, che diventano improvvisamente giudici del suo operato non solo di madre, ma di persona a se stante. La dicotomia necessaria del sapersi completa, e giusta, e risolta solo se il sacro materno si impossessa finalmente di te.

Ho avuto sentimenti molto contrastanti durante il suo lunghissimo discorso e non solo perché fosse scritto decisamente male. Mi ha fatto tenerezza quel suo rivendicarne l’autorialità, come se si aspettasse un “brava” alla fine. Perché è riuscita a infantilizzarsi da sola senza nemmeno saperlo, alla strenua ricerca di quella validazione esterna (e maschile) da cui tutte cerchiamo di liberarci.

Ferragni ha materializzato in 3D la nemesi esatta del concetto di autodeterminazione pensando di fare il contrario. Gli applausi dell’Ariston e un certo giubilo che è scorso attraverso le piattaforme social ci dicono che sì, è solo ancora questo il femminismo che può passare. Questo qualcosa-washing predigerito e facilmente assimilabile da chiunque, molto rosa e molto luccicante che ripone nelle responsabilità del singolo il successo o la caduta di un intero genere.

La lacrima sospinta e il magone tenuto fino alla fine che come collettività ci impongono di empatizzare perché – ed ecco che ritorna il mostro – oltre che bella, e ricca, è anche brava. Senti che cose importanti che dice. Se lo merita di stare dov’è.

Ecco, Sanremo continua a essere Sanremo e sarà Sanremo per sempre. E Sanremo non è la nostra bolla, non lo è mai stata. Lo guardiamo nella disperazione che ci porta a sognare che passi qualcosa attraverso, nonostante il suo incrollabile esser Sanremo, cercando di illuderci che il dentro delle bolle per osmosi passi anche fuori. Ma queste bolle bisogna infrangerle e smettere di esser schizzinose se ogni micro tassello non si incastra esattamente dove avremmo dovuto perché questo è sicuramente uno dei grandi problemi che ci spinge continuamente indietro.

Ferragni avrà il merito di aver annacquato un dibattito affinché deflagrasse al di fuori, sarà lei a esser ricordata per aver reso pop e mainstream certe istanze, di sicuro sarà criticata – e ferocemente – perché i tasselli sono sparsi in giro in disordine.

Eppure sono fuori. Sono sul palco dell’Ariston. Sta a noi capire se ci basta o no, tenendo bene in mente il jingle e smettendo di aspettarci che i più fiammeggianti dei nostri desideri siano esauditi dalla fata madrina di turno.

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