Diritti

Iran: i funerali diventano digitali per sfuggire alla polizia

Aggressioni e irruzioni da parte degli agenti di sicurezza stanno costringendo le famiglie a tenere le cerimonie in rete, grazie a pagine commemorative dei loro cari sui social media. Per ricordare, ma anche denunciare
Credit: Probal Rashid/ZUMA Press Wire
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2 febbraio 2023 Aggiornato alle 09:00

Le vittime del regime iraniano non trovano pace nemmeno da morte. Le famiglie di coloro che sono stati uccisi mentre partecipavano alle proteste antigovernative vengono infatti ostacolate nel preparare commiati in ricordo dei propri cari. Sempre più famiglie hanno scelto di trasferire i loro memoriali in rete, un fenomeno che progressivamente sta diventando virale e che sempre più famiglie adottano.

Una scelta quasi obbligata, questa, considerato che spesso le forze di sicurezza irrompono con violenza nei raduni funerari, assalendo i partecipanti e negando a famigliari e amici di dare un ultimo saluto a chi ingiustamente è stato ucciso.

Proprio questo è accaduto a novembre durante il 40° giorno di commemorazione del giovane 26enne Mohammad Hassan Torkaman, ucciso il 21 settembre a Babol durante una manifestazione. Come denuncia il video condiviso da Justice for Iran, mentre era in corso la cerimonia funeraria un gruppo di ufficiali della sicurezza hanno iniziato a sparare a persone che si trovavano nelle pressi del cimitero. Il fratello di Mohammad Hassan in una recente intervista rilasciata a SkyNews ha dichiarato che in quella giornata: «Miliziani in borghese hanno usato granate assordanti, gas lacrimogeni, proiettili di gomma, pistole paintball e manganelli, e che molti partecipanti sono stati arrestati e feriti».

L’intervento oppressivo da parte degli agenti di sicurezza avvenuto al cerimoniale di Mohammad Hassan non è stato un caso isolato. L’Iran International conferma l’impossibilità per le famiglie dei manifestanti uccisi di svolgere commemorazioni. Durante i funerali di Hadis Najafi e Mehrshad Shahidi, rispettivamente a Karaj e ad Arak, le forze di sicurezza hanno sparato gas lacrimogeni contro le famiglie in lutto e altre persone che volevano raggiungere il cimitero, bloccando le strade.

Recentemente, sempre Iran International, ha diffuso la notizia che alcune persone sono state arrestate per aver provato ad aggiungere una lapide alla tomba di Mohammad Hosseini, una delle vittime più sole del regime e apparentemente senza famiglia; invece nelle scorse settimane è stata rotta la lapide installata sulla tomba di Mohsen Shekhari, il primo manifestante giustiziato dal regime.

Le aggressioni perpetuate contro chi si riunisce per commemorare i defunti è l’ennesima dimostrazione di potere da parte del regime che tramite queste violenti irruzioni tenta di impaurire le famiglie delle vittime. Nonostante siano trascorsi mesi dalla morte di Mohammad Hassan, la sua famiglia, continua a essere molestata e pedinata dalle autorità islamiche, nell’intervista a SkyNews il fratello ha detto: «Siamo monitorati e controllati, alcuni giorni ci seguono, mentre certe notti stazionano vicino a casa nostra».

Per questo motivo le famiglie dei manifestanti deceduti stanno ricorrendo alla creazione di pagine commemorative dei loro cari sui social media. Un fenomeno che la ricercatrice per i diritti umani presso la Soas University di Londra, Azadeh Pourzand, ha definito «l’archiviazione e la commemorazione dal basso», in quanto sono parenti o amici a creare e gestire i profili memoriali.

Grazie alla viralità e all’immediatezza dei social network il memoriale online ha inoltre assunto una funzione di denuncia pubblica: ovvero per far sì che nessuno si dimentichi la strage di vite innocenti che il regime ha provocato, e continua a provocare.

A confermarlo sono i numeri: secondo i dati raccolti dalla piattaforma TalkWalker, l’hashtag del nome di Mohammad Hassan è stato twittato ben più di 143.000 volte.

Oltre ai memoriali presenti nei social, di importanza rilevante è il progetto Omid Memorial (speranza in persiano), un archivio digitale per ricordare tutti coloro che sono stati uccisi dallo Stato, realizzato nel 2002 dall’Abdorrahman Boroumand Center. L’obiettivo è aiutare le famiglie dei defunti nel loro processo di lutto e affiancarle nella ricerca di una giustizia che, per tutte queste vittime (al momento 26.242) tarda a compiersi.

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