Diritti

Abbiamo un grande problema quando parliamo di lavoro

“Non hanno voglia di lavorare”: i giovani, descritti come parassiti e inetti. Sempre lo stesso racconto, che dà voce a chi ha il potere economico. Mai a chi quel potere, invece, non lo ha
Credit: cottonbro studio/pexels
Ella Marciello
Ella Marciello direttrice comunicazione
Tempo di lettura 7 min lettura
25 gennaio 2023 Aggiornato alle 06:30

All’inizio ci fu Alessandro Borghese a puntare il dito contro i “giovani che non vogliono lavorare, fare la gavetta”. Dimenticandosi, tout court, di essere un figlio d’arte, un privilegiato, che la gavetta può farla perché il pensiero di come campare nemmeno lo sfiora e dimenticandosi soprattutto un minuscolo particolare: il lavoro si paga, anche quando impari.

A dare man forte a questa narrativa incentrata sulla pigrizia dei giovani arrivò presto anche Flavio Briatore che dalle interviste si scagliò contro i percettori del reddito di cittadinanza che addirittura “vogliono i week-end liberi”.

L’estate si è poi snodata attraverso un racconto sincopato di questo o quell’imprenditore - non farò caso al fatto che fossero tutti uomini (ma invece sì) - che con grandi lagnanze piagnucolavano attraverso i microfoni circa l’impossibilità di trovare personale, nonostante offrissero dei contratti regolari. Già la possibilità di dover sottolineare questo fatto ci dovrebbe far storcere il naso.

“Chiudiamo per mancanza di personale, i giovani preferiscono stare sul divano con il reddito di cittadinanza” è un po’ il riassunto di quei mesi che, con la loro coda lunga, ci hanno consegnato via via una stratificazione narrativa che poneva ə giovani - tutti, indistintamente - come parassitə, inettə, immuni al sacrificio e che ci ha fatto tristemente rimpiangere il choosy dell’allora Ministra Fornero.

È dei primi di gennaio anche il j’accuse del proprietario della storica pasticceria Vecchia Milano, che trova spazio sulle pagine del Corriere lamentando la “mancanza di manodopera specializzata” e affermando che “ragazzi che sanno a malapena riempire un cannoncino hanno pretese da professionisti”.

Un racconto sempre unilaterale che dà voce a chi detiene il potere economico e mai a chi quel potere non ce l’ha. Perché in ogni storia dovremmo cercare di delineare obiettivamente le linee di intersezione del privilegio e dare un peso conseguente alle parole che vengono dette. In un Paese con un tasso di disoccupazione giovanile del 25,3% (dati di gennaio, fonte Istat) stupisce che proprio la prospettiva di chi un lavoro non ce l’ha (o ne ha 2 o 3, precari) non sia mai presa in considerazione.

Se l’estate si è concentrata principalmente sulla difficoltà di reperire lavoratorə in strutture alberghiere, ristoranti e accoglienza, a settembre ci siamo spostati su un altro tipo di racconto: quello epico di chi si laurea anzitempo, di chi dorme 4 ore a notte per completare gli studi, di chi è partito da zero e ha creato aziende milionarie - ma poi, con due click su Google, si scopre che proprio da zero certi rampolli di famiglie bene non sono partiti - addirittura di chi si è laureata coi prodromi del parto: un incessante fiorire di notizie col riflettore puntato sugli “altri” giovani, quelli che la voglia ce l’hanno, quelli che i sogni a ogni costo, quelli che sanno sacrificarsi in nome del lavoro. Quelli del merito, insomma.

E se questa narrazione non viene attraversata come di consueto da uno sguardo critico circa le condizioni di partenza, o le possibilità che non sono davvero uguali per tuttə o, ancora, la consapevolezza di un sistema di vita e di lavoro che è sostanzialmente schiavismo e sopravvivenza per i più, quello che dovremmo cercare di fare, come cittadinə e come persone, in primo luogo, è comprendere a chi sia funzionale questo tipo di narrazione mediatica.

Qualche giorno fa la notizia di una collaboratrice scolastica - mai appellata in questo modo, perché “bidella” fa decisamente più Libro Cuore - che ogni giorno fa la pendolare tra Napoli e Milano per onorare il suo impiego è rimbalzata su tutte le principali testate nazionali; un po’ perché la motivazione addotta era “mi costa meno che affittare una stanza a Milano” e un po’ perché la storia aveva del surreale. Sui social media le reazioni non si sono fatte attendere, tra utenti che certosinamente andavano a conteggiare il costo del mensile sul sito di Trenitalia, le immancabili parodie e le analisi sul costo della vita e sul caro affitti nella capitale lombarda.

La cifra adottata dai media, se ci pensiamo, è sempre la stessa: cambiano ə protagonistə, cambia la città o il settore ma si eleva un certo tipo di attitudine al lavoro che fa del suo fulcro alcune emozioni e alcuni paramenti. Ed ecco quindi la lamentazione del datore di lavoro che trova riscontro nell’abnegazione di chi si fa 80 km al giorno perché quello è proprio “il lavoro che ama” (Laura, 22 anni, l’ultima in ordine temporale), la facile retorica di chi pretende gratitudine perché il lavoro lo dà che cozza contro i tanti, i troppi, i tutti che invece stanno a casa sul divano a non fare niente.

Ecco Giuseppina, sorridente dalla foto sul Frecciarossa, a corredo della notizia ripresa ovunque, nuova Stachanov di questi tempi abbietti, che diventa il simbolo deə giovani altrə, quelli e quelle che, a ogni costo, il lavoro se lo vanno a prendere dove c’è anche facendosi 1.400 km al giorno perché, vedi, gridano i giornali, il lavoro esiste per tuttə ma sei troppo choosy per capirlo davvero.

In questo cerchio narrativo che pare compiersi e chiudersi c’è una lotta che ha smesso di essere viva ed è diventata rassegnazione. Perché se il mondo ti grida da ogni anfratto che la colpa è tua, che sei tu, che guarda gli altri invece che fanno per tirare a campare, alla fine un po’ ci credi. E se quel messaggio è reiterato nel tempo quella piccola parte di te che si è convinta diventa sempre più grande. Ingoia tutto ciò che c’è intorno, non lascia spazio al dubbio. Il dubbio sacrosanto di chiedersi se il sistema sia fallato. E dove. E chi ci guadagna. E alle spalle di chi.

Quello che leggiamo ogni giorno sono storie. Le storie hanno a lungo occupato un ruolo fondamentale nell’insegnamento di norme e valori culturali: sono uno strumento potente per comunicare ciò che è importante e ciò che non è importante per un gruppo, perché identificano i nostri eroi, le nostre eroine, e le caratteristiche che conferiscono loro quello status. E se le storie sono utilizzate distorcendo la realtà, prediligendo alcune informazioni ad altre o inventandone di non reali, le stesse storie diventano propaganda: quel tipo di comunicazione, principalmente politica, volta a promuovere un particolare programma o punto di vista.

Plasmando le opinioni delle persone e indirizzandole sul dualismo indotto di giusto\sbagliato, la propaganda ci fa accettare con semplicità alcune decisioni politiche, sostenendo chi le porta avanti.

Nello scenario attuale, il racconto mediatico diventa cruciale per corroborare alcuni aspetti circa le modifiche al reddito di cittadinanza con la Manovra 2023. Riduzione a 7 mesi per la percezione, a fronte degli 8 precedenti. L’obbligo di istruzione, che prevede che per i beneficiari di età compresa tra 18 e 29 anni che non hanno terminato la scuola dell’obbligo, la possibilità di usufruire del reddito sia condizionata dalla frequenza di percorsi di formazione o funzionali all’adempimento dell’obbligo scolastico. La cancellazione dell’offerta “congrua”: per tutti e tutte, si profila la possibilità di dover accettare qualsiasi proposta, a prescindere da dove si trova il luogo di lavoro. La foto di Giuseppina sorridente dal Frecciarossa ci sembra sempre più funzionale a questo punto, no?

Nonostante la Corte dei Conti abbia attestato che il rdc sia uno strumento fondamentale per abbassare la soglia di povertà in Italia, il megafono governativo - sì, qui il tema è anche quello dei finanziamenti pubblici ai giornali - si è servito di storie costruite con un certo taglio, prospettiva e tono di voce al fine di modellare l’opinione di chi legge.

In fondo, se sappiamo a chi dare la colpa e perché, se ci sentiamo dalla parte del giusto, le condizioni precarie, i sacrifici, i salari infimi e l’abolizione dei diritti non ci sembrano così preoccupanti.

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