Diritti

Un sacchetto di perle per continuare a sognare

Un vetraio veneziano pronto a lasciare la sua attività. Prima, un’ultima missione: insegnare alle ragazze africane come produrre le perle a lume. Un progetto di The Thinking Watermill Society, raccontato da La Svolta
Credit: Museo del Veneto
Tempo di lettura 4 min lettura
22 gennaio 2023 Aggiornato alle 09:00

Nel leggere le testimonianze di coloro che vivono nelle comunità dei piccoli Stati insulari, come per esempio quelli dell’Oceano Pacifico, colpisce l’amore per il “mana” e i “totem” che rappresentano lo spirito e le tradizioni di quelle terre. Penso a Tuvalu o alle isole Tiwi, ai discorsi dei vari Mr Simon Kofe o Dennis Tipakalippa.

Lo spirito dei luoghi quale senso della proprio essere e la coscienza di essere la ragione esistente di coloro che sono stati. Non bisogna andare lontani, però, per sentire e provare lo stesso.

Se pensiamo a Venezia e alla sua storia, è stata un piccolo Stato insulare, anche se la sua fama è conosciuta in tutto il mondo. Venezia e la sua laguna sono Patrimonio Mondiale Unesco, un patrimonio che presto potrebbe essere dichiarato in pericolo per assenza di efficaci azioni volte a tutelarla: azioni volte a regolare il flusso dei turisti, a contrastare lo spopolamento e assicurare mantenimento delle tradizioni.

E venendo alle tradizioni, chi pensa Venezia pensa anche al vetro e alle creazioni artistiche che con esso possono eseguirsi: tra esse le perle a lume, conosciute anche come perle veneziane, la cui antica arte di produzione è stata dichiarata Patrimonio immateriale dell’Unesco nel 2020.

Hanno una tradizione antichissima, che risale al dodicesimo secolo: ne sono state trovate alcune anche in Alaska, prodotte nel quindicesimo secolo alcuni decenni prima della scoperta dell’America da parte di Colombo.

Oggetti talmente ben fatti da divenire mezzo di scambio: con esse gli olandesi acquistarono il terreno su cui fu costruita Nuova Amsterdam, poi divenuta Nuova York, in onore del famoso duca che la bombardò e la occupò per rappresaglia contro i soprusi commessi dagli olandesi nei confronti degli inglesi nelle lontane isole delle spezie poste a oriente dell’India, duranti i contrasti guerreggiati che contrapposero la potenza olandese e quella inglese nel diciassettesimo secolo.

Con le perle di vetro erano acquistati dai mercanti di uomini inglesi e portoghesi gli schiavi in Africa, venduti dai vari capitribù: a ricordarci che nello schiavismo una parte determinante la giocarono anche gli stessi africani che vendevano i nemici sconfitti e finanche i propri sudditi, a segno che gli esseri umani non si distinguono per il colore della pelle ma tra oppressori e oppressi.

E per chi le ha viste - queste perle - è chiaro che anche i cosiddetti selvaggi, tanto selvaggi non erano, perché non accettavano semplici perline, ma oggetti d’arte unici al mondo, non meno preziosi dei vari metalli e le merci che si usavano per eseguire baratti.

Perle di vetro che arrivarono in Africa, perle veneziane ma anche praghesi, che influenzarono l’arte delle perle fatte con altri materiali dalle popolazioni locali, come quelle del lago Turkana in Kenya e del popolo Masai, che così iniziarono a utilizzare anche il vetro come materia prima, lavorato diversamente ma comunque ispirato alle perle veneziane. Perle in vetro che vennero utilizzate per il primo trasferimento immobiliare registrato avvenuto in Kenya, dove un terreno situato a Mombasa venne pagato parte con cotone grezzo e parte di queste stesse perle nel 1880.

Da qui l’idea di un progetto, nato della mente di un vetraio veneziano che, vicino a lasciare la propria attività che il figlio non ha voluto proseguire, ha promosso l’idea di insegnare la tecnica veneziana a donne africane, per trasformare un oggetto - un tempo mezzo di schiavitù - in strumento di emancipazione economica: perché le perle veneziane trovano sempre acquirenti.

Il progetto è portato avanti dall’organizzazione non profit The Thinking Watermill Society: vede al momento una stilista keniana andare a Murano e imparare quest’arte, con l’idea di tornare in Kenya, dotata delle idonee attrezzature, e produrre perle in vetro che possano impreziosire la propria collezione di borse, coinvolgendo ragazze madri che lavorano con lei.

Parafrasando in inglese, non più pearls for tears but as gears to empowers women and communities: perle non per lacrime, ma strumenti di emancipazione di donne e comunità.

Un piccolo sasso - anzi, una piccola perla di vetro - nello stagno per proseguire una tradizione e creare una storia che, grazie a La Svolta, continueremo a raccontarti.

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