Diritti

Katanga: l’insostenibilità sociale della rivoluzione verde, e del cobalto

Nella regione congolese, dove è custodito il 70% delle riserve mondiali di cobalto, sono oltre 40.000 i minorenni impiegati quotidianamente nelle miniere. Spogliati del diritto a un’istruzione (e non solo)
Credit: EPA/NIC BOTHMA   

Questo pezzo è il frutto di un lavoro continuo di indagine e approfondimenti, contatti diretti e interviste, tutti condotti dall’estensore dell’articolo negli ultimi quattro anni. Tra il settembre e il dicembre sono stati pubblicati su Domani quattro articoli parte di una inchiesta che si sarebbe dovuta concludere con un viaggio in ex Katanga dell’autore dell’articolo nel maggio del 2021. Il noto drammatico evento dell’uccisione dell’ambasciatore omonimo e amico dell’autore dell’articolo nel febbraio del 2021, con cui erano stati organizzati viaggio e assistenza, hanno portato alla decisione di rimandare e una nuova ipotesi di partenza si sta valutando al momento.

«Entravo in miniera ogni mattina a volte il più grande ero io e avevo solo 11 anni. Se portavamo su qualche grammo di cobalto riuscivamo a comprare qualcosa da mangiare, altrimenti andavamo a dormire affamati. A volte il tunnel crollava e i bambini rimanevano dentro, sepolti vivi».

Il virgolettato non è tratto da una raccolta di testimonianze di “carusi”, i minatori siciliani di fine XIX secolo così ben narrati, tra i vari, da Giovanni Verga nel suo Rosso Malpelo. Né fa parte dei racconti dei grandi autori inglesi della rivoluzione industriale di 170 anni fa. A parlare è Alain, un ragazzino oggi tredicenne di Kolwezi, capoluogo del Lualaba, ex Katanga, Repubblica Democratica del Congo, la regione nel cui sottosuolo giace circa il 70% del cobalto del mondo.

Da quando è esplosa la cobalt rush, la moderna corsa all’oro blu alla base della green revolution, lui e gli altri oltre suoi 40.000 “fratellini” minorenni – secondo l’Unicef – si infilano quotidianamente nei cunicoli scavati a mano per portare alla luce a mani nude, qualche grammo del prezioso minerale. Rispetto agli altri 200.000 adulti coinvolti nell’estrazione artigianale del cobalto in Katanga, hanno il grande vantaggio di essere agili, brevilinei e rapidi.

Peccato, però, che spesso non ritornino in superficie, contraggano gravi patologie, non vadano a scuola e guadagnino per circa 12 ore di lavoro tra i due e i cinque dollari al giorno.

Benvenuti nel cobalt hell, l’esempio più lampante del paradosso contemporaneo che moltiplica schiavitù col pretesto del progresso e della salvaguardia dell’ambiente.

La rivoluzione verde, la purificazione dell’atmosfera per mezzo della progressiva immissione nel mercato di veicoli elettrici o ibridi a scapito di quelli alimentati a benzina o diesel, la pagano i bambini del Katanga.

La filiera dell’energia pulita è sudicia

Al centro del nuovo interesse di multinazionali che si sono scaraventate in Congo o che, dall’altra parte della catena o lungo il corso, lo lavorano, lo assemblano e utilizzano, c’è l’altissimo potenziale di ricarica che il cobalto offre alle batterie. Per quelle dei nostri smartphone, di qualsiasi device elettronico o delle nostre auto elettriche, ce n’è un infinito bisogno.

Per la batteria di una e-car – che determina il 30% circa del prezzo di vendita - ne servono una decina di chili. Per un cellulare meno, ma la richiesta di smartphone è esponenzialmente più alta.

È normale, quindi, che la domanda abbia fatto letteralmente schizzare a livelli altissimi i costi di un materiale fino a un decennio fa relegato nelle ultime posizioni del London Metal Exchange: nel 2017, in piena espansione del mercato delle auto elettriche, è cresciuto del 120%, superando i 90.000 dollari a tonnellata. Ora si è assestato intorno ai 51.000.

Ai ragazzini del Lualaba, quindi, non resta che scavare, infilarsi senza attrezzature nelle gallerie ricavate a volte esattamente sotto casa e portare in superficie la più alta quantità di cobalto possibile che i loro padroni e padroncini venderanno al dettaglio nel mercato drogato che da Kolwezi arriva nelle fabbriche dei produttori del mercato automotive, telefonia mobile e software a libello globale.

Congo, una terra ricca di materie prime

In qualsiasi altro posto del mondo, la notizia di avere sotto i propri piedi il materiale più richiesto del momento, in percentuali che sfiorano il 70%, farebbe esultare governanti e, soprattutto, cittadini.

In Congo, come è stato con il caucciù alla fine del XIX secolo, l’oro, i diamanti, il legname, il rame, il coltan e ora il cobalto, la scoperta si trasforma in una vera e propria iattura. È la solita, reiterata maledizione delle risorse che non solo lascia la popolazione - per leggi di mercato estromessa dai profitti - in estrema povertà e sottosviluppo (nello Human Development Index il Congo giace al 176° posto su 188 Paesi) ma le crea ulteriori gravissimi problemi, scatena conflitti.

E il Lualaba, una volta povero ma caratterizzato da un’economia di sussistenza, ora si ritrova a essere un paesaggio lunare dove è scomparsa l’agricoltura e comprare prodotti come farina, uova o latte è diventata un’impresa. I fenomeni di land-grabbing, con intere fette di popolazione deportate per permettere sempre più scavi, l’aumento della povertà, l’abbandono scolastico e l’incidenza di patologie, sono ormai all’ordine del giorno.

La richiesta mondiale annua di 180.000 tonnellate di cobalto (prima del Covid 200.000), un affare da 6-7 miliardi di dollari, ha scatenato una corsa all’oro blu in totale deregulation e fatto lievitare i profitti delle compagnie della filiera, al 90% straniere (tantissime asiatiche, molte nord- americane e occidentali).

La filiera delle batterie ha tanti snodi, ognuno dei quali presenta molte opacità. Il livello a monte è rappresentato dalla estrazione vera e propria. E qui va fatto un primo importante chiarimento.

Come avviene l’estrazione

Il 70% dell’attività mineraria è di tipo industriale, gestita, cioè, da multinazionali del settore estrattivo che acquisiscono le concessioni direttamente dal governo congolese – non sempre in modo trasparente - e dirigono l’intero processo di estrazione con macchinari e alta tecnologia.

Tra le più note troviamo la anglo-svizzera Glencore (i cui ricavi sono aumentati del 43%, salendo a 203,8 miliardi di dollari nel 2021 nonostante la pandemia), la cinese Huayou Cobalt (Cdm), o varie joint venture cinesi-governo del Congo come Erg, Chemaf, Tenke Fukurume, China Molybdenum.

Su questa fetta di estrazione, c’è, ovviamente, un certo controllo, anche se il sistema presenta zone grigie e falle.

La Ong Focsiv, a esempio, denunciava nel 2020 il caso della Glencore su cui gravavano dubbi riguardo a trasparenza e tracciabilità dei prodotti, così come sui diritti dei lavoratori e il rispetto dell’ambiente. Ci sono poi episodi continui di sversamento illegale, land-grabbing e inquinamento a carico di molte compagnie.

Il restante 30% dell’estrazione del cobalto nel Lualaba è appannaggio dei creuser (in francese “scavatori”), cercano, scoprono e sfruttano filoni di cobalto anche a ridosso delle proprie abitazioni ed estraggono a mani nude. Lavorano spesso in proprio, senza alcuna autorizzazione, e privi delle minimali norme di sicurezza così come di formazione.

Compreso di avere un tesoro sotto le proprie scarpe, decine di migliaia di persone hanno ritenuto l’estrazione un modo per divenire rapidamente ricchi. Ciò, oltre ad aver attratto molti congolesi da altre regioni, ha favorito una sorta di inurbamento selvaggio. Il mercato del cobalto, nel frattempo, in questa no-man’s land è diventato una enorme nebulosa con mille intermediari più o meno ufficiali che, dopo tanti passaggi, lasciano ai creuser al massimo 5 dollari al giorno.

Scendendo sul corso della filiera di fornitura del cobalto si arriva ai produttori di componenti cui seguono i manifattori e gli assemblatori (ogni passaggio si suddivide a sua volta in sottosnodi). Il livello downstream sono i grandi marchi di elettronica e di automobili fino ad arrivare agli utilizzatori finali, cioè noi, i consumatori di smartphone e acquirenti di auto elettriche.

I diritti negati dei bambini

Difficile alzare il dito verso specifiche compagnie per lo spregio sistematico dei diritti a cominciare da quello dei bambini di andare a scuola, godere di buona salute e astenersi da attività lavorativa per finire con l’accusa di vero e proprio schiavismo.

Quasi impossibile portare i loro rappresentanti alla sbarra. Ci ha provato Terry Collingsworth, direttore di International Rights Advocates (Ira).

«Nel 2018 sono andato per la prima volta in Katanga e ho visto con i miei occhi bambini anche di sette, otto anni entrare nei tunnel senza protezione, praticamente seminudi, con una torcia sistemata su un cappellino. Per me fu un vero e proprio shock e ho deciso di agire».

Terry comincia a visitare famiglie i cui figli sono morti nei cunicoli o rimasti menomati a vita. Dopo colloqui e interviste di varie settimane riesce a convincere 14 nuclei famigliari a muovere una class action niente di meno che a Tesla, Apple, Dell, Microsoft e Google. «È stato dimostrato che alla base della filiere utilizzate da questi cinque grandi marchi venivano utilizzati bambini, che erano sistematicamente sfruttati e che oltre che contrarre malattie, morivano. I grandi marchi non potevano dirsi all’oscuro o non sentirsi responsabili».

La class action è stata presentata in prima istanza a dicembre del 2019 e poi integrata a maggio 2020. Dopo un periodo di ostacoli dovuti «alla nomina da parte di Trump di un giudice che ha respinto la denuncia» l’Ira, sempre sul pezzo, è tornata a sperare: «L’8 dicembre - Collingsworth al telefono lo scorso 23 dicembre - c’è stata una nuova udienza e sono ottimista». In caso di vittoria per l’Ira e le 14 famiglie su cinque della maggiori compagnie del mondo, saremmo di fronte a un evento di portata storica che farebbe giustizia di tanto spregio e indifferenza verso i diritti e segnerebbe una svolta epocale nella letteratura giuridica del lavoro.

A sollevare il coperchio di questo vaso colmo di malaffare è stata Amnesty International.

Nel gennaio del 2016, con il report This is what we die for, ha sdoganato tutte le aziende della filiera, specie quelle che si facevano belle sotto lo slogan ‘ripuliamo il mondo’, mettendo sotto accusa le loro policy in alcuni casi totalmente irrispettose dei diritti.

L’anno dopo, il sequel “Time to recharge”, fece un primo punto mettendo all’indice una trentina di grossi brand tra cui Sony, Renault, Samsung, Apple. FCA, General Motors, Huawei, Microsoft, Lenovo, Vodafone, colpevoli di aver intrapreso «little» o «no-remedy-action».

Le cose da allora, lentamente, stanno cambiando. Amnesty International, Ira e tante piccole e grandi Ong hanno fatto emergere il gravissimo problema e molte testate internazionali (poche le nostre) hanno ripreso il tema e diffuso consapevolezza.

Gli impegni della comunità internazionale

Nell’alveo delle azioni susseguenti sono certamente da segnalare la Eu Supply Chain Law, una proposta di legge presentata a febbraio dalla Commissione europea sugli obblighi di sostenibilità aziendale che punta a costringere le aziende a rispettare l’intera filiera del proprio settore di attività. O il Battery Passport, la recente iniziativa della Global Battery Alliance, un gruppo composto da oltre 100 aziende della filiera delle batterie, comprese alcune come Glencore, Tesla o LG, che sta adottando uno strumento per aziende e consumatori che garantisca tracciabilità, abbattimento dei gas a effetto serra e rispetto dei diritti umani e del lavoro.

Ci sono poi Ong come la Good Shepherd International Foundation (Gsif), molto attive sul campo e in prima linea nell’intervenire nelle comunità minerarie intorno a Kolwezi per eliminare le gravi forme di lavoro minorile, combattere sfruttamento e abusi e fare advocacy presso organismi transnazionali. Children, not miners è il loro programma che a Kolwezi ha letteralmente tirato fuori dalle miniere artigianali di cobalto quasi 5.000 bambini in dieci anni, rimettendoli lì dove devono stare, in un ambiente protetto, seduti davanti a un banco e di fronte ai propri insegnanti.

«Quella che chiamiamo Quarta rivoluzione industriale – dichiara Cristina Duranti, direttrice di Gsif - non esisterebbe senza il cobalto. Ma l’estrazione di questo minerale è totalmente fondata su un sistema di sfruttamento delle risorse minerarie che va in opposizione al rispetto dei diritti e alla sostenibilità ed è ampiamente irresponsabile».

«Se penso ai miei amici che ancora sono costretti a scendere in galleria sono preso da tanta tristezza – dice oggi Alain, inserito in una delle classi della scuola gestita dalla Good Shepherd a Kolwezi e ritornato nel XXI secolo – Nessun bambino dovrebbe trascorrere neanche un giorno in miniera. Ora che studio, spero da grande di diventare un avvocato e lavorare in difesa di diritti».

Non ci è certo chiesto di fermare l’industria delle macchine elettriche né, tantomeno, degli smartphone. Come consumatori consapevoli, però, idealmente più vicini ad Alain e ai suoi 40.000 fratellini nell’ex Katanga, abbiamo il potere di richiedere che l’energia che utilizziamo sia veramente pulita.

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