Futuro

Traumi e violenze si tramandano nel Dna, da madri a figli

Uno studio sulle donne del Ruanda ha scoperto tracce genetiche del genocidio del 1994 nella popolazione, tra cui oggi aumentano casi di disturbi da stress mentale
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20 gennaio 2022 Aggiornato alle 07:00

Il segno di indicibili violenze lasciato persino sul Dna. Cosa può fare una tragedia come il genocidio del Ruanda sui corpi delle donne e dei loro figli? Quale eredità i traumi inimmaginabili degli orrori avvenuti in Africa nel 1994, e che hanno portato alla morte di oltre 1 milione di persone, posso passare di generazione in generazione? Domande che oggi, grazie a un nuovo studio basato sull’epigenetica e pubblicato sulla rivista Epigenomics trovano prime risposte.

Un team di scienziati dell’Università del Ruanda e di quella della Florida hanno studiato l’intero genoma di alcune donne tutsi che nel 1994, quando è scoppiata la guerra e ha avuto avvio il genocidio, erano incinte e vivevano in Ruanda. Non solo: hanno anche analizzato il Dna dei loro figli e dei nipoti. Quello che hanno scoperto è che l’eredità dei traumi ha lasciato il segno nel Dna delle persone sopravvissute, tramandando questi segni anche alle generazioni successive, ovvero a figli che non sono nati nel momento dello scontro etnico fra hutu e tutsi, con questi ultimi che pagarono un incredibile prezzo in vite umane.

È noto che nel Dna di ognuno di noi alcuni geni possono essere alterati attraverso cambiamenti epigenetici, influenzati dallo stile di vita, da traumi fisici e psicologici, dalle esperienze e dall’ambiente. Gli scienziati volevano capire come i massacri avvenuti in Ruanda potevano aver apportato modifiche chimiche alle donne incinte vissute durante il genocidio, in sostanza se i traumi hanno o meno apportato delle “firme” genetiche su di loro. Non solo sono stati trovati questi segni di cambiamento, ma le firme sono state individuate anche nel genoma della prole (ai tempi si parla di feti), indicando così come i cambiamenti epigenetici sono stati trasmessi di madri in figli. In totale sono circa 60 i diversi Dna analizzati.

“L’epigenetica si riferisce a modifiche chimiche stabili, ma reversibili, apportate al Dna che aiutano a controllare la funzione di un gene - ricorda Monica Uddin, autrice dello studio - e il nostro studio ha scoperto che l’esposizione al genocidio prenatale era associata a un modello epigenetico indicativo di una ridotta funzione genica nella prole”.

I traumi registrati soprattutto nelle donne tutsi durante i 100 giorni di genocidio sono tutt’oggi difficili da rievocare, vista la loro brutalità. Si parla di omicidi, mutilazioni, atti orribili: si stima che durante la guerra siano oltre 200.000 le donne violentate sessualmente.

Per un altro autore della ricerca, il professor Derek Wildman, “il popolo ruandese che fa parte di questo studio e della comunità nel suo insieme vuole davvero sapere cosa è successo a loro nel tempo perché in Ruanda ci sono molti disturbi da stress post-traumatico e altri disturbi della salute mentale e la gente vuole risposte sul motivo per cui stanno vivendo questi condizioni e hanno questi problemi”.

Lo studio non è il primo del genere, altri sono stati fatti per esempio in passato sulle vittime di una carestia che colpì i Paesi Bassi occupati dai nazisti, ma è il primo ad analizzare così nel dettaglio le conseguenze - anche fisiche e di salute - relative al genocidio del Runda. Una delle conferme che fornisce per i ricercatori è “la necessità di potenziare gli sforzi per proteggere la sicurezza e il benessere emotivo e psicologico delle donne in gravidanza”.